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Clima

Mitigare i danni e adattarsi al futuro

Mentre a livello nazionale si è persa la strategia, le città lavorano per contrastare gli effetti del clima che cambia

Scritto da il 01 dicembre 2014 alle 7:00 | 0 commenti

Mitigare i danni e adattarsi al futuro

Un argomento che trovereste con fatica nei piani di rigenerazione urbana italiani è quello dell’adattamento ai cambiamenti climatici, che pure è di grande attualità. Quando arrivano sui nostri territori le cosiddette “bombe d’acqua”, che sarebbe meglio definire “tempeste tropicali” o “Monsoni” al fine di levare loro il carattere d’eccezionalità e di fatalità, visto che sono previste in aumento da tutti i climatologi, le nostre città vanno letteralmente in ginocchio. Spesso con conseguenze fatali per i cittadini. Sottopassaggi che si allagano in pochi minuti, scantinati inondati dall’acqua e rapidi smottamenti urbani che si trasformano in colate di fango, sono solo alcuni dei fenomeni causati dall’intensificarsi delle precipitazioni sia come frequenza, sia come intensità. Si tratta di danni che, con il mancato adattamento, diventeranno molto costosi. Nella strategia per l’adattamento ai cambiamenti climatici che l’Unione europea ha presentato nell’aprile del 2013, infatti, si stima che investendo un euro oggi contro le inondazioni se ne risparmieranno sei in futuro, mentre il mancato adattamento da parte degli Stati membri della UE costerebbe 100 miliardi di euro al 2020 e 250 al 2050. Un costo salato che riguarda solo i danni strutturali e non quelli delle attività produttive, per non parlare di quelli sociali. Le città italiane su questo fronte sono particolarmente vulnerabili, per due motivi. Il primo è quello strutturale, poiché sono ben poche le città che hanno rispettato anche solo le logiche minime di buon senso negli ultimi decenni, edificando spesso addirittura su aree d’espansione fluviali deserte da secoli, oppure rettificando fiumi per guadagnare spazio all’edificazione sia commerciale, sia abitativa; mentre la seconda è rappresentata dal fatto che l’Italia al 2014 non ha ancora adottato una strategia nazionale d’adattamento ai cambiamenti climatici – la consultazione pubblica lanciata nell’autunno 2013 dall’allora ministro dell’ambiente Andrea Orlando si è persa nelle secche della politica – mentre molti paesi la hanno adottata da svariati anni, la prima è stata la Finlandia nel 2005, seguita da Francia, Olanda e Spagna nei due anni successivi. Una strategia di adattamento ai cambiamenti climatici per le città deve necessariamente contenere prima di tutto una visione integrata delle politiche del territorio, tenendo conto dei Piani di Tutela delle Acque, di quello del Dissesto Idrografico, del Piano di Assetto Idrogeologico, con lo scopo di limitare gli utilizzi delle zone ad alta vulnerabilità. Sembra una cosa scontata eppure è necessario ribadirlo, perché oltre all’eccesso quantitativo del consumo di suolo abbiamo anche fenomeni diffusi per i quali non sarebbero necessari norme e regolamenti, ma sarebbe sufficiente il buon senso. Così come dovrebbe essere altrettanto scontato ciò che si trova nella “Strategia locale di adattamento ai cambiamenti climatici della città di Bologna”, una delle poche città a essersi dotata di uno strumento simile, redatta a inizio 2014, che recita testualmente: «è necessaria la manutenzione dei corsi d’acqua attraverso interventi di regimazione idraulica, di ricalibratura e di pulizia degli alvei». E il documento prosegue con altri aspetti, quali la vulnerabilità del sistema energetico, specialmente sul fronte dell’approvvigionamento, – e qui la generazione distribuita da fonti rinnovabili può dare un contributo fondamentale – e, tra le altre cose, la gestione delle acque reflue «al fine di accrescere la resilienza dei centri urbani».

Ecco che si apre un capitolo importante, quanto ignorato, che è quello dell’adattamento ai cambiamenti climatici dell’intero ciclo delle acque. La maggiore intensità delle precipitazioni – legata anche all’aumento delle temperature in alta quota con il conseguente aumento della piovosità a discapito della nevosità – impone la gestione di grandi quantità d’acqua in tempi limitati, cosa che la gestione integrata del ciclo delle acque in Italia non è, nella maggior parte dei casi, in grado di fare. Le grandi quantità d’acqua che non possono essere assorbite da terreni impermeabilizzati dal cemento e l’energia cinetica dell’acqua che non viene limitata dai fiumi i cui alvei sono spesso alterati, impegnano i collettori idrici delle acque reflue cittadine – i quali ancora oggi sono progettati senza tener conto dei cambiamenti climatici, cosa che è entrata a regime in molte altre nazioni, per una moltitudine di strutture strategiche, dai porti alle centrali nucleari, passando per ferrovie e autostrade – danneggiandoli e mettendo fuori uso i sistemi di depurazione con conseguenti fenomeni d’inquinamento che, nei casi più gravi, possono mettere in crisi le reti sia idriche, sia energetiche, amplificando le conseguenze già spesso drammatiche delle inondazioni. In Italia siamo al punto di partenza. Non essendoci l’obbligo di tener conto delle conseguenze dei cambiamenti climatici, dopotutto solo pochi anni fa il Parlamento ne negava l’esistenza, anche le nuove direzionalità urbane non ne tengono conto. Con il risultato di continuare a compromettere per decenni il futuro dei territori e dei cittadini.

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L'autore

Sergio Ferraris

Sergio Ferraris, nato a Vercelli nel 1960 è giornalista professionista e scrive di scienza, tecnologia, energia e ambiente. È direttore della rivista QualEnergia, del portale QualEnergia.it e rubrichista del mensile di Legambiente La Nuova Ecologia. Ha curato oltre cinquanta documentari, per il canale di Rai Educational Explora la Tv delle scienze. Collabora con svariate testate sia specializzate, sia generaliste. Recentemente ha riscoperto la propria passione per la motocicletta ed è divenatato felice possessore di una Moto Guzzi Le Mans III del 1983.


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