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Nel carcere femminile di Rebibbia ha aperto un caseificio a km zero

Cibo agricolo libero

Un caseificio a km zero nel carcere femminile di Rebibbia

Ogni giorno 4 detenute trasformano 200 litri di latte bio in formaggio a km zero

Scritto da il 19 febbraio 2016 alle 7:11 | 1 commento

Un caseificio a km zero nel carcere femminile di Rebibbia

Il primo dicembre, a Roma, ha aperto i battenti un caseificio particolare: produce formaggi a km zero, da latte bio e il “direttore d’orchestra” è il noto affinatore di formaggi Vincenzo Mancino già ideatore di Proloco DOL. Fin qui, nulla di insolito. La particolarità di questo caseificio è la sua location: il carcere femminile romano di Rebibbia.

Il progetto nasce due anni fa quando Mancino si recò nel carcere di Rebibbia in qualità di giurato in una gara culinaria organizzata nella casa circondariale. Visitando l’istituto Mancino scoprì al suo interno una mini azienda agricola, con polli, conigli, verdure e un piccolo gregge. Di lì nacque un’idea: un’area appena dismessa, l’ex pulcinaio, avrebbe potuto ospitare un caseificio. Una follia? A vederla oggi la risposta a questa domanda non può che essere negativa. Da due mesi, infatti, dopo non poca strada percorsa, è nato Cibo Agricolo Libero  “l’unico caseificio all’interno di un carcere, all’interno del raccordo anulare” – ci spiega Vincenzo – che rispecchia interamente i principi e i valori di DOL (Di Origine Laziale): il km zero e l’artigianalità. Non potendo avere un intero gregge all’interno del carcere, né procedere alla mungitura, il latte biologico arriva da Poggio Mirteto. Questa attività non gode di fondi pubblici, ma l’investimento è interamente privato e non è da considerare un “passatempo” per le detenute, poiché è stato realizzato proprio per produrre formaggi di alta qualità e al contempo formare dei casari esperti. “Dopo una lunga e difficoltosa selezione”, ci spiega Mancino, “sono state scelte 10 donne che hanno realizzato un corso teorico – pratico. Quattro di loro, alla fine, sono state selezionate per lavorare nel caseificio”. Un mestiere, quello del casaro, che le ragazze potranno portarsi dietro anche fuori dal carcere mentre, nel frattempo, avranno una retribuzione vera e propria.

Vengono realizzati 5 formaggi e una ricotta. I nomi? Sono numeri (uno, due, tre, quattro e cinque) come, in fondo, vengono “nominate” le persone in carcere.

Il numero uno? Per chi conosce DOL sa che non poteva non essere un conciato lavorato con le erbe aromatiche già presenti nell’azienda agricola di Rebibbia come rosmarino, timo, timo serpillo, lauro, serpillo, maggiorana, salvia, lavanda.

I formaggi si vendono solo se sono buoni, a prescindere da chi li abbia prodotti” ci ricorda Vincenzo Mancino, il quale però specifica che ovviamente, in questo caso, il progetto va oltre il formaggio stesso.

Ad oggi, da 200 litri di latte, vengono realizzati 20 kg al giorno, venduti allo spaccio del carcere e nelle tre ProLoco DOL di Roma, ma l’obiettivo sarà una più vasta distribuzione.

Una favola? No, è il frutto della dedizione e dell’energia di chi crede che le cose, anche in Italia e anche in contesti difficili, si possano fare e, storia nella storia, forse è opportuno raccontare qualcosa di più sull’ideatore di questo progetto. Vincenzo Mancino, appena lo incontri capisci che è una persona fuori dal comune, un realizzatore di sogni. Nato a Cancellara, in un piccolo paese della Basilicata, vive a Roma da 20 anni. Schivo, riservato, specie se si tratta di realizzare un’intervista o parlare di sé, si lascia però andare (un po’) quando le domande sono volte a saperne di più sui suoi progetti. Chi è di Roma lo conosce da tempo. Undici anni fa apriva DOL, Di Origine Laziale, una gastronomia molto particolare dedicata a far (ri)scoprire le eccellenze agroalimentari del Lazio. Un locale in un luogo non casuale: Centocelle, quartiere della periferia di cui Vincenzo si era innamorato. Allora, tra le domande di chi lo intervistava, una si ripeteva costantemente: “ti sposterai in centro?” e la sua risposta era sempre la stessa: “ma perché, a Centocelle non meritano di mangiare bene?”. Precursore dei tempi (o tracciatore di strade), oggi quel quartiere pullula di locali a vocazione “km zero”, con prodotti tipici e riscoperta delle artigianalità gastronomiche. Vincenzo tornò nuovamente a far parlare di sé quando decise di far conoscere e “salvare” il Conciato di San Vittore, un formaggio che rientra nelle rarità del Lazio e che oggi è prodotto dallo stesso Mancino, con Teodoro Vadalà, il custode di questo formaggio che, per chi ha avuto il piacere di assaggiarlo (e nel mio caso di andare a farlo, per un giorno), ti permette, con un solo assaggio, viaggiare tra i profumi ed i sapori del basso Lazio. Di formaggio in prosciutto, tra le tante novità vi è stata la trasformazione di DOL in Proloco con l’apertura del locale, rigorosamente a Km zero oggi meta gastronomica della Capitale tra le più ambite. Nonostante lui, parlando di sé dica “sono solo un pizzicagnolo” è stato scelto come una delle 21 “statue” rappresentative del saper Fare italiano, al Padiglione Italia, all’Expo di Milano, accompagnato dalla seguente descrizione:

“Il lavoro di Vincenzo si sintetizza in quattro punti: rispettare il tempo delle stagioni e della natura, accorciare la distanza tra una grande città e la sua campagna, rifiutare la globalizzazione alimentare che porta all’appiattimento del gusto, tramandare le tradizioni della propria terra. Per fare questo, da anni, seleziona prodotti della campagna laziale e li commercia nel suo punto vendita di Roma”.

E oggi, l’apertura del caseificio nel Carcere femminile di Rebibbia a Roma…

 


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L'autore

Letizia Palmisano

Giornalista dal 2009, esperta di tematiche ambientali e “green” e social media manager. Collabora con alcune delle principali testate eco e scrive sul suo blog letiziapalmisano.it. È consulente sulla comunicazione 2.0 di aziende ed eventi green e docente di social media marketing. In 3 aggettivi: ecologista, netizen e locavora (quando si può).


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