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Obiettivo: efficienza | Tekneco

la miniera europa

Obiettivo: efficienza

Gli obiettivi al 2030 in fatto di rinnovabili, riduzione delle emissioni climalteranti ed efficienza energetica, decisi di recente, hanno accolto quasi del tutto le richieste dei grandi player dell’energia europei. Basterà?

Scritto da il 03 aprile 2015 alle 9:00 | 0 commenti

Obiettivo: efficienza

Il gigante nascosto, oppure il vero giacimento energetico europeo. Queste sono solo due delle molte definizioni che si sono utilizzate in questi anni, in Europa, a proposito dell’efficienza energetica e alle quali, spesso, non sono seguiti dei fatti concreti. È almeno dal 2005, anno in cui sono stati creati i famosi obiettivi 20-20-20, ossia più 20% di energie rinnovabili, meno 20% di emissioni climalteranti, meno 20% di consumi d’energia primaria, il tutto al 2020, che si parla molto d’efficienza energetica sia a Bruxelles, sia nelle capitali degli Stati membri dell’Unione europea. Unico problema: proprio l’obiettivo sull’efficienza, che dei tre era l’unico non vincolante. Ragione per la quale nel settore dell’efficienza energetica, nonostante i comunicatori di Bruxelles avessero coniato una bella parola d’ordine come “Fare di più, con meno”, ciò che si è fatto è stato poco e quel poco è stato realizzato in ordine sparso, sia dalle singole nazioni, sia dai privati che hanno identificato nell’efficienza energetica esattamente ciò che non sono riusciti a individuare le “teste d’uovo” dell’Unione europea, ossia una leva di mercato per le imprese. All’epoca, ed eravamo nella fase pre crisi, si disse che un vincolo anche sull’efficienza sarebbe stato eccessivo e che in realtà i risultati sarebbero arrivati anche dal combinato disposto degli altri due obiettivi: quello sulla CO2 e quello sulle rinnovabili. In effetti, anche solo l’aver fissato un’indicazione, ciò fu recepito da alcuni Paesi come uno stimolo e produsse una serie di risultati abbastanza tangibili. L’aumento dell’efficienza degli elettrodomestici e delle autovetture in tutto il continente, i piani per l’edilizia a bassa emissione della Gran Bretagna e l’ecobonus del 55% in Italia furono delle azioni ben definite che hanno portato, a nove anni di distanza, a risultati concreti come la nuova generazione di elettrodomestici – l’Unione europea ha dovuto aggiungere due classi alle etichette, la +A e la ++A, per stare al passo con l’innovazione – oppure all’operazione Fiat-Chrysler, nella quale la tecnologia dei motori endotermici a basso consumo della casa ex-torinese ha giocato un ruolo strategico. E oltre a ciò, ancora, la nascita di un mercato prima inesistente, come quello della ristrutturazione energetica in edilizia, che ora anche i costruttori associati all’Ance difendono a spada tratta. Inoltre, a tutto questo si deve aggiungere l’efficienza nei sistemi industriali che sono stati innovati fin dai primi anni Novanta, seguendo dinamiche squisitamente imprenditoriali e, solo marginalmente, ambientali. Negli anni tra il 2005 e il 2008 parve che l’efficienza potesse addirittura marciare con le proprie gambe, accompagnata da un minimo d’incentivi e, infatti, a quel tempo sembrava spalancarsi l’epoca delle ESCo (Energy Saving Company), ossia delle società energetiche che traggono il proprio profitto dalla “vendita” di servizi chiavi in mano d’efficienza energetica, ammortizzando contemporaneamente i costi degli interventi. Un modello che avrebbe potuto diffondersi a macchia d’olio, andando oltre i perimetri delle aziende e interessando, così, anche la Pubblica Amministrazione e i privati. Il meccanismo d’innesco dell’efficienza energetica, però, ha incominciato a incepparsi un paio d’anni dopo, con l’approssimarsi della crisi congiunturale che riguarda tutt’ora, dopo sette anni, l’Europa e questo fermo non si può spiegare senza analizzare i fenomeni di contesto. Il dato più sconcertante è che uno dei motivi della crisi dell’efficienza energetica risiede nell’impetuoso sviluppo delle rinnovabili e nel miglioramento delle tecnologie per la riduzione dei gas climalteranti, invertendo così la logica che era stata voluta dal legislatore europeo. Il punto cruciale risiede nella rottura del paradigma, in realtà quasi un dogma, relativo allo stretto legame tra l’aumento dei consumi energetici e quello del Prodotto Interno Lordo (Pil) che è anche il motivo della mancanza del vincolo sull’obiettivo relativo all’efficienza energetica. Il crollo della manifattura europea negli anni della crisi fece, infatti, saltare tutte le previsioni sui consumi d’energia nel Vecchio Continente, provocando uno stallo nelle politiche delle compagnie energetiche e specialmente nelle utilities elettriche. Queste aziende, infatti, da un lato hanno visto andare a picco i fatturati a causa dei minori consumi indotti dalla crisi, mentre, contemporaneamente, sono state incalzate dalle rinnovabili, fotovoltaico in testa, – che hanno costo marginale pari allo zero – quando nel frattempo durante gli anni immediatamente precedenti avevano massicciamente investito nella generazione termoelettrica a ciclo combinato di nuova concezione a gas naturale. Nella sola Italia gli impianti a ciclo combinato contano per 21 GWe, un terzo abbondante della potenza di picco elettrica richiesta nel nostro Paese. E si tratta di un problema europeo che è anche alla base della profonda ristrutturazione del colosso energetico tedesco E.ON il quale, a quanto se ne sa, sta confinando tutti gli asset “fossili” in una società che potrebbe diventare una “bad company” se le cose dovessero continuare ad andare male per i cicli combinati. Anche compagnie petrolifere storiche, come la nostrana Erg, stanno abbandonando il fossile, con l’aggravante che anche la raffinazione di base del petrolio sta diventando poco conveniente, vista la scelta dei Paesi arabi d’investire direttamente su questo settore, per recuperarne la marginalità. Insomma, più di un investitore deve avere preso sul serio il report della banca d’affari svizzera Ubs che alcuni mesi fa consigliava i propri clienti di liberarsi dei pacchetti azionari delle utilities energetiche europee, i cui bilanci sarebbero già ora messi in crisi dalle rinnovabili e dall’efficienza energetica, anche se prive d’incentivi. E la reazione del settore fossile non si è fatta attendere. Verso la fine del 2013 i Ceo dei primi dieci operatori del settore elettrico europeo Enel, Eni, Cez, Iberdrola, Gasterra, Vattenfall, Gdf Suez, E.ON, Rwe, Gas Natural Fenosa, riuniti nel “Gruppo Magritte”, dal nome del museo dove si sono riuniti la prima volta, hanno ufficialmente richiesto di mettere un freno alle rinnovabili e all’efficienza. E non hanno dovuto attendere molto per vedere i risultati della loro azione di lobby. In molti Paesi dell’Unione europa c’è stata un’inversione di rotta su rinnovabili ed efficienza. In Spagna e in Italia si è messo mano agli incentivi sulle rinnovabili a livello addirittura retroattivo, mentre il governo britannico non è riuscito nell’impresa, ma incentiva il nucleare, e la Germania ha scelto una politica più soft che punta a una fine pilotata degli incentivi, anche perché deve gestire la delicata fase d’uscita dal nucleare, messo al bando dalla Cancelliera Angela Merkel all’indomani dell’incidente ai reattori atomici di Fukuschima. Ma il successo più grande il “Gruppo Magritte” lo ha conseguito sotto il profilo delle politiche europee. Gli obiettivi al 2030 in fatto di rinnovabili, riduzione delle emissioni climalteranti ed efficienza energetica, usciti nei mesi scorsi, hanno visto un accoglimento quasi totale delle richieste dei grandi player dell’energia europei. Si tratta di target appena un poco maggiori dello scenario “business as usual” poiché si richiede al 2030 il raggiungimento del 27% di energie rinnovabili, un aumento “inerziale” di meno del 1% all’anno, visto che oggi stiamo al 16%, il raggiungimento del 40% di riduzione delle emissioni su base del 1990 e un’efficienza energetica al 27%, obiettivo ancora una volta non vincolante che, quindi, sarà costantemente in balia delle politiche dei singoli Stati, per alcuni dei quali l’efficienza energetica non è di sicuro una priorità. Il panorama energetico europeo, oggi, è un pallido ricordo di ciò che era solo alcuni anni addietro ai tempi degli obiettivi al 2020 e ciò si è visto chiaramente anche durante l’ultima “Conference of the parties” (Cop 20) sui cambiamenti climatici di Lima durante la quale l’Unione europea ha giocato un ruolo di retroguardia abdicando, di fatto, la leadership in tema d’energia e clima. E nel frattempo la Cina e gli Usa hanno annunciato un accordo bilaterale in tema di rinnovabili e clima, in grado di spazzare via, nel giro di pochi anni, la leadership europea sulle tecnologie per le nuove energie. Gli Stati Uniti, infatti, ridurranno del 26% le proprie emissioni climalteranti entro il 2030, mentre la Cina soddisferà una fetta della propria fame d’energia, il 20%, con le rinnovabili entro lo stesso anno, bloccando in quella data l’aumento delle emissioni climalteranti. Di colpo si apre un mercato enorme, parliamo di due Paesi che fanno il 34% del Pil del Pianeta per un valore di 24.465 miliardi di dollari, e dietro al quale c’è un accordo di spartizione chiaro per tutte le tecnologie energetiche, giocato in chiave antieuropea. Dalle fonti rinnovabili, alle tecnologie “low carbon”, passando per il nucleare, la partita in quel gigantesco mercato si giocherà solo ed unicamente tra le due sponde dell’Oceano Pacifico, mentre l’Europa affossa da sola il settore dell’efficienza energetica, levandogli lo zoccolo duro del mercato interno. Per reggere una simile competizione, infatti, il Vecchio Continente avrebbe bisogno di politiche rivolte in primo luogo verso il proprio interno, per evitare che le tecnologie mature a livello industriale “emigrino” verso aree dove i costi, sociali e ambientali, sono minori – e bisogna dire che sarebbe un bel paradosso ritrovarsi tra qualche tempo a dover discutere di un qualche materiale isolante per l’edilizia ad altissima efficienza energetica realizzato in Asia, su un brevetto europeo, senza alcun rispetto per l’ambiente e per i lavoratori. Non paga di tutto ciò, Bruxelles ha dato ancora un altro colpo alle proprie politiche in materia d’ambiente e imprese, cancellando due importanti proposte di direttive che avrebbero spinto le aziende europee in una direzione ancora più virtuosa. Si tratta della direttiva sull’economia circolare, ossia sul riciclo spinto dei rifiuti in chiave di una sempre maggiore produzione di materie prime/seconde, ossia di rifiuti che diventano materie prime per altri cicli di produzione e di quella sulla qualità dell’aria, ossia del testo normativo che impone emissioni inquinanti sempre più basse al settore industriale e a quello automobilistico. Uno stop chiaro e inequivocabile, forse messo in atto sotto dettatura di qualche altra lobby fossile. In pratica si è trattato di una morsa a tenaglia per le imprese dell’efficienza europee fatte salve, forse, quelle tedesche. Le imprese manifatturiere tedesche, infatti, possono giocare su un mercato di medie dimensioni, quello interno e degli Stati limitrofi, su buone capacità di ricerca e sviluppo, su una forte attitudine all’esportazione, su un costo medio dell’energia e su una buona flessibilità nel mercato del lavoro, tutte caratteristiche che daranno, almeno sul breve periodo, la possibilità alle imprese tedesche, attive nel settore dell’efficienza energetica, di svilupparsi, sempre che Usa e Cina non aumentino la propria aggressività commerciale, magari usando come grimaldello il famigerato accordo Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) sul libero scambio tra Stati Uniti e Vecchio Continente. Invece a perdere potrebbe essere l’Italia, sotto la cui presidenza di turno sono state prese le decisioni sugli obiettivi e sulle direttive, che ha un sistema manifatturiero altrettanto forte nel campo dell’efficienza energetica, mobilità a parte, ma che possiede delle condizioni di contesto molto diverse, a cominciare dalle politiche energetiche. E se da un lato troviamo, infatti, aziende italiane che realizzano sistemi di climatizzazione estremamente efficienti e performanti per stadi e data center asiatici, dall’altro abbiamo un mercato interno che non consente una crescita adeguata del settore dell’efficienza energetica a causa, prima di tutto, di un’assenza di politiche industriali e della scarsa visione del ceto politico. Si pensi al continuo “tira e molla” che avviene ogni anno per il rinnovo dell’ecobonus o, ancora peggio visto che il provvedimento sarebbe a costo zero per lo Stato, al rinvio infinito dell’obbligo per la contabilizzazione del calore negli edifici. In un continente che sta perdendo la leadership nel settore, l’Italia rischia di fare il fanalino di coda in un campo come quello dell’efficienza energetica dove, per ora, possiede un discreto vantaggio tecnologico e competitivo.

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L'autore

Sergio Ferraris

Sergio Ferraris, nato a Vercelli nel 1960 è giornalista professionista e scrive di scienza, tecnologia, energia e ambiente. È direttore della rivista QualEnergia, del portale QualEnergia.it e rubrichista del mensile di Legambiente La Nuova Ecologia. Ha curato oltre cinquanta documentari, per il canale di Rai Educational Explora la Tv delle scienze. Collabora con svariate testate sia specializzate, sia generaliste. Recentemente ha riscoperto la propria passione per la motocicletta ed è divenatato felice possessore di una Moto Guzzi Le Mans III del 1983.


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