Tekneco #13 – Ambiente
Un anno rovente
Presentato il Quinto Rapporto di valutazione sul clima dell’Ipcc. Gli scenari sono drammatici ma l’Unione Europea farà sapere a dicembre come comportarsi
Prepariamoci perché il Quinto Rapporto di valutazione dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) sarà la plancia da gioco su cui ci muoveremo nei prossimi anni.
La Commissione europea sta infatti già pensando di portare al 40% l’obiettivo da raggiungere per il taglio delle emissioni di CO2 entro il 2030, oltre ad un 30% di uso di energie rinnovabili; anche se questi due impegni sostituirebbero completamente il target del risparmio energetico, fissato al 20% entro il 2020. È vero che la commissaria europea al clima Connie Hedegaard mentre noi andiamo in stampa non ha ancora né confermato né smentito, il che vuol dire che la cosa è più concreta di quanto si vorrebbe anche se, molto probabilmente, tutt’altro che condivisa. Come andrà a finire si saprà solo a dicembre.
Sembrerebbe che siano gli industriali europei a fare lobby e voler fermare la Hedegaard con la motivazione che tali impegni finirebbero col penalizzare il comparto europeo a discapito di quello di altri Paesi che invece non hanno, né avranno, vincoli ambientali così stringenti. Preoccupazione condivisa da un suo collega di Commissione, Olli Rehn che, responsabile agli affari economici, avrebbe il timore che una politica ambientale così impegnativa finirebbe con il danneggiare la già debole ripresa economica.
Persino l’Italia, con il commissario Antonio Tajani, è intervenuta sul tema invocando un “matrimonio di interesse” tra ambiente e industria, ma non c’è dubbio che anche lui spinga per un quadro di vincoli ambientali più debole, ovvero più simile a quello di molti altri Paesi del globo: «Solo rafforzando la nostra base industriale e investendo di più in innovazione possiamo sviluppare tecnologie d’avanguardia per ridurre le emissioni. Con costi energetici sempre più proibitivi, spingiamo, invece, le nostre imprese a delocalizzare in Paesi meno attenti alla sostenibilità, indebolendo il contrasto al surriscaldamento e creando disoccupazione». Insomma, innovare sì, ma senza vincoli sulle emissioni o, almeno, senza i vincoli che vorrebbe la commissaria europea al clima.
Ma il Quinto Rapporto di valutazione dell’IPCC è destinato a cambiare i pesi e il ruolo dei diversi giocatori sullo scenario globale.
Non c’è bisogno di sfogliare le migliaia di pagine di cui è composto per andare dritti al punto: le probabilità che il pianeta si surriscaldi di oltre 2 gradi centigradi entro la fine del secolo sono sempre più alte. E non è lo scenario più fosco. Il peggiore, infatti, predice che la temperatura media del Pianeta salirà addirittura di 3,7°C rispetto al periodo 1986-2005; i mari potrebbero salire in alcuni punti della Terra oltre gli 80 cm, senza contare scioglimento delle nevi, stagioni sfalsate, eventi meteorologici estremi e, all’orizzonte, sempre la preoccupazione di eventi catastrofici imprevedibili come l’arresto della corrente del Golfo.
Sfogliare e comprendere a fondo i quattro scenari che gli scienziati dell’Ipcc hanno messo a punto richiederà ancora tempo, ma sulle misure da adottare c’è poco da dire. L’accumulo di gas serra nell’atmosfera è ormai tale che alcuni danni sono irreversibili e, anzi, molti dei maggiori effetti li vedremo solo negli anni a venire, ma per evitare danni peggiori nel futuro occorre arrestare l’aumento incontrollato di CO2. Bisognerà che l’anidride carbonica rimanga, entro il 2100, sotto la soglia delle 421 parti per milione, cosa non facile, considerando che già oggi siamo a quota 400 e saliamo di 2 parti all’anno.
Detto questo, potremmo dire che il senso della green economy sta tutto qua. In quelle 21 parti per milione che dobbiamo scongiurare. Nella costruzione di un’economia, e quindi di una tecnologia, di una scuola di saperi e di competenze, che sappiano invertire l’attuale tendenza. Che si pongano concretamente l’obiettivo di salvare il mondo.
Su The Guardian, il prestigioso quotidiano inglese, alcune settimane prima della pubblicazione del rapporto dell’Ipcc, si denunciava come alcune multinazionali stessero finanziando scienziati, ovviamente non indipendenti, per dimostrare che i cambiamenti climatici non esistono o che, se esistono, non sono causati dalla mano dell’uomo.
Per questo le trattative in seno all’Unione europea divengono cruciali e cruciale può essere il ruolo della Ue sul tavolo delle trattative globali, che non possono essere al ribasso. Non possono chiedere alla natura di non reagire all’inquinamento dell’atmosfera perché i mercati non possono permetterselo.
Per dirla con Lester R. Brown, fondatore del Worldwatch Institute nonché fondatore e presidente del Earth Policy Institute, non abbiamo più tempo per essere pessimisti.
Quanto costano i ritardi sul clima
Continuare a tergiversare non potrà che costarci caro, sempre più caro. È la tesi del Potsdam Institute for Climate Impact Research che non si limita a fare la morale – anzi, per la verità, non fa nessuna morale, è solo una forzatura di noi giornalisti – ma cita numeri e fa previsioni molto ben ponderate.
Ulteriori ritardi nell’attuazione di politiche globali per mitigare il cambiamento climatico potrebbero far triplicare i costi a breve termine. Se perdurasse l’attuale situazione di stallo fino al 2030, spiegano gli analisti dell’istituto, la crescita economica globale si ridurrebbe del 7% nel primo decennio dopo l’attuazione delle politiche climatiche. La riduzione sarebbe invece del 2% se si raggiungesse un accordo sul clima entro il 2015.
«Le ripercussioni economiche transitorie – spiega l’autore dello studio, Gunnar Luderer – che risulterebbero da un ritardo nel passaggio a un’economia amica dell’ambiente sono comparabili ai costi della crisi finanziaria che il mondo ha appena vissuto». In altre parole, più ritarderà l’assunzione di politiche internazionali per il contenimento entro i 2 gradi dell’innalzamento delle temperature, tanto più velocemente si dovrà procedere con la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. E questo non farà altro che rendere il processo più difficile e costoso.
Nella ricerca sono state prese in esame varie voci di spesa e scenari differenziati. Per esempio, intervenire con politiche climatiche nel 2030 potrebbe far crescere i prezzi dell’energia nel breve periodo dell’80%; al contrario, intervenendo nel 2015, questi costi potrebbero incrementare solo del 25%.
D’altronde anche nel celebre studio di Nicholas Stern su economia e clima si mettevano in risalto i costi dell’inazione. Aspettare costa.
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L'autore
Marco Gisotti
Direttore scientifico di Green factor, ha creato e dirige dal 2005 il Master in Comunicazione ambientale del Centro studi CTS con il Dipartimento di scienze della comunicazione della Sapienza di Roma e l’ENEA. È autore, con Tessa Gelisio, di “Guida ai green jobs. Come l’ambiente sta cambiando il mondo del lavoro” (Edizioni ambiente).
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