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Riciclo e riuso delle città | Tekneco

rigenerazione urbana

Riciclo e riuso delle città

Non più nuovi quartieri ma la riqualificazione, anche sociale, dell’esistente. Secondo “Il Piano nazionale per la rigenerazione urbana sostenibile” del Consiglio Nazionale degli Architetti, è ormai caduto il tabù per cui non si poteva abbattere niente, nemmeno le brutture del passato

Scritto da il 03 dicembre 2014 alle 7:00 | 0 commenti

Riciclo e riuso delle città

La sete di suolo delle città, che non può essere soddisfatta semplicemente allargandosi verso l’esterno, visto che esistono dei limiti fisiologici all’espansione, ha introdotto da alcuni anni una nuova logica di pensare l’urbanistica, ossia quella della rigenerazione urbana.

Si tratta non di una pratica specifica, bensì di un insieme di pratiche con le quali si vuole, fondamentalmente, dare una sistematizzazione a ciò che in realtà si è fatto per anni, ossia, il riutilizzo di pezzi della città. Ci sono, però, delle differenze sostanziali rispetto a ciò che si faceva alcuni decenni addietro. La rigenerazione, infatti, potremmo definirla un parente stretto, sotto il profilo ecologico, del riuso e del riciclo dei rifiuti. Infatti, si tratta di riutilizzare risorse già sfruttate, e in particolare il suolo, senza comprometterne di nuove, anzi spostando l’ago della bilancia magari verso attività più sostenibili, come il verde e gli orti urbani. Il tutto, naturalmente, accompagnandosi ai cambiamenti sociali ed economici in corso. Il processo, come tutti i processi urbanistici, è complesso poiché oggi i cittadini non sono più disposti a subire scelte imposte dall’alto, per cui è necessario pensare a nuove sinergie partecipate tra il pubblico, con la sua funzione di regolatore, il privato, che è necessario per supplire alla mancanza di fondi del pubblico e il “sociale”, che determina il successo, o l’insuccesso, delle operazioni urbanistiche.

Tutta la partita è legata agli aspetti energetici e alla mobilità, che deve essere sostenibile, pena la congestione perenne. Due aspetti fino a pochi anni fa marginali, specialmente in Italia, ma che ora sono due punti cardine fondamentali. Senza contare ciò che dobbiamo aspettarci dalla sempre maggiore interazione che si svilupperà con la cosiddetta “internet of the things” che sarà applicata sia dentro, sia fuori casa all’interno della logica che dovrebbe portare alle “smart cities” che per ora si iniziano a intravedere solo sotto l’aspetto energetico, vista la complessità d’approccio delle altre discipline coinvolte.

Circa la complessità della rigenerazione, bisogna anche stare attenti agli effetti imprevisti dei quali la storia della pianificazione urbanistica, nel nostro Paese, è piena. Non sono state ancora sanate, infatti, quelle che ormai sono considerate delle vere e proprie ferite sul territorio nate, forse con le migliori intenzioni, negli anni Settanta. Interventi come quelli di Corviale e Tor Bella Monaca a Roma, come le Vele di Scampia, San Polo a Brescia, sono solo alcuni degli esempi di “rigenerazione urbana” mancata che avrebbero voluto sanare le piaghe lasciate dall’abusivismo di necessità del dopoguerra e ne hanno, invece, aperte altre, assieme alle quali ci sono le grandi speculazioni edilizie degli anni Settanta e Ottanta che nella maggior parte dei casi si sono rivelate essere delle altre voragini aperte sul fronte urbanistico.

Oggi in Italia, e anche in altre parti d’Europa, ci si trova di fronte a quartieri, nei quali vivono decine di migliaia di persone, caratterizzati da scarsi servizi, sia sociali, sia relativi alla mobilità – privata e collettiva – estremamente energivori che sono complicati anche solo nell’approccio, visto che il Bel Paese è caratterizzato da un’estrema parcellizzazione della proprietà immobiliare, dovuta anche all’irresponsabile dismissione degli immobili pubblici residenziali degli anni scorsi, con un 78,2 per cento delle famiglie che vive in case di proprietà. Si tratta di un dato che rende molto complicato qualsiasi processo complessivo di rigenerazione urbana che veda ipotesi radicali, però risolutive, come quelle legate all’abbattimento e ricostruzione.

Una soluzione a ciò la si trova, o meglio la si troverebbe, nel documento “Il Piano nazionale per la rigenerazione urbana sostenibile” redatto nel 2012 dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori (CNAPPC) che, a proposito della pratica della demolizione e ricostruzione, afferma: «Occorre, da parte di tutti, superare il tabù della demolizione e ricostruzione. I costi per rimettere a nuovo edifici non adeguati al rischio sismico sono più alti di una ricostruzione vera e propria. Conviene abbattere qualche muro, cancellando così anche i nefasti risultati della pianificazione scorretta degli anni Sessanta, realizzando contestualmente scuole, asili, negozi e centri culturali» e il Piano continua citando l’esempio della Francia e delle sue “banlieues” che furono “date alle fiamme” durante la rivolta del 2005, dove è stata avviata una politica nazionale denominata di “rinascimento urbano”, attraverso una legge nazionale e un’Agenzia specifica: l’ANRU, Agence Nationale pour la Renovation Urbaine. E nel giro di quasi dieci anni sono parecchi i “grands ensembles” degli anni ‘60 e ‘70 che sono stati demoliti e ricostruiti grazie all’opera dell’Agenzia. «Per garantire la possibilità d’interventi sostitutivi, demolendo e ricostruendo non necessariamente sullo stesso sedime, si deve superare l’approccio espropriativo, non sostenibile dalla Pubblica Amministrazione nelle operazioni di trasformazione urbana, affiancando ai principi perequativi quelli compensativi. – prosegue il CNAPPC – Si può così caricare sugli operatori privati l’onere della realizzazione delle opere di urbanizzazione, permettendo al soggetto pubblico l’acquisizione dei suoli e/o di altre risorse, in cambio di diritti edificatori economicamente “equivalenti” da localizzare su aree appositamente preposte allo scopo o di immobili di proprietà degli enti locali».

Ora, in un Paese dove le varie agenzie sono in realtà delle agenzie di collocamento e il ruolo degli enti locali è quello di favorire lo “sviluppo” con nuovi chilometri quadrati di cemento aggiuntivo, magari con la scusa di dare compensazioni sotto forma di cubature ai costruttori dopo aver dichiarato come opere di pubblica utilità stadi e porti turistici, diventa complesso pensare di mettere in campo modelli simili a quelli d’oltralpe, ma qualcosa si può fare. Una grande leva di sviluppo della rigenerazione urbana in realtà deriva da un Tallone d’Achille del nostro Paese: l’elevato rischio sismico.

L’obbligo, e si dovrebbe parlare d’obbligo perché quello del rischio sismico è un’emergenza nazionale, della ristrutturazione antisismica di tutti gli edifici, potrebbe essere un vero grimaldello per iniziare un percorso serio sulla rigenerazione urbana, che deve essere realizzata, però, attraverso una robusta indagine sociologica che stia alla base della progettazione urbanistica e architettonica, cosa che in Italia è completamente assente. Un caso esemplare è quello dell’intervento “Giustiniano Imperatore” a Roma dove era prevista la sostituzione edilizia di edifici realizzati nell’immediato dopoguerra e afflitti da gravi problemi di stabilità.

L’intervento è stata una vera occasione persa perché il progetto è stato calato dall’alto senza che ci fosse stata un’indagine sociologica e che si ipotizzasse un percorso partecipato con i cittadini. Eppure gli ingredienti per realizzare un ecoquartiere nello stile di Vauban a Friburgo c’erano tutti. Grandi spazi non edificati, dimensioni piccole utili per una pedonalizzazione spinta, prossimità della metropolitana e un vivace tessuto sociale non degradato. La convinzione che fosse sufficiente un buon progetto architettonico e un premio di cubatura del 30% per i costruttori per determinare il successo non era, e non è, assolutamente sufficiente, poiché è mancata la mano pubblica in quello che sarebbe il suo ruolo fondamentale: guidare le scelte degli stakeholder in maniera paritaria. È fallito persino il processo di gentrificazione (vedi box a lato) e gli unici stabili realizzati del progetto sono quelli sostitutivi degli edifici abbattuti per l’impossibilità del recupero, mentre tutti gli altri hanno scelto il consolidamento delle fondazioni.

Così ora convivono i pochi nuovi edifici con quelli vecchi, con un tessuto metropolitano non rinnovato e si è persa l’occasione di realizzare un esperimento urbanistico di prim’ordine a ridosso del cuore della Città Eterna. Solo ed esclusivamente per un approccio che non ha tenuto conto degli elementi sociali che sono fondamentali, al pari di quelli architettonici, urbanistici, edilizi e tecnologici, nel determinare il successo, o l’insuccesso, di un qualsiasi progetto di rigenerazione urbana.

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L'autore

Sergio Ferraris

Sergio Ferraris, nato a Vercelli nel 1960 è giornalista professionista e scrive di scienza, tecnologia, energia e ambiente. È direttore della rivista QualEnergia, del portale QualEnergia.it e rubrichista del mensile di Legambiente La Nuova Ecologia. Ha curato oltre cinquanta documentari, per il canale di Rai Educational Explora la Tv delle scienze. Collabora con svariate testate sia specializzate, sia generaliste. Recentemente ha riscoperto la propria passione per la motocicletta ed è divenatato felice possessore di una Moto Guzzi Le Mans III del 1983.


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