Rovine sostenibili
Distruggere per ricostruire da zero. Quando la demolizione genera valore. Le nuove tendenze teorico-pratiche.
Frammenti incoerenti minimi:
il contrario della storia, creatrice di rovine,
dalle tue rovine hai ricavato un’opera
Octavio Paz, “Objects and Apparitions — for Joseph Cornell
La poesia di Octavio Paz introduce bene il discorso riguardante un cambio di sguardo necessario nella nostra relazione con alcune cose particolari che popolano il nostro ambiente: le rovine; quelle che arrivano dalle storie passate ma anche le rovine quotidiane, la spazzatura, ciò che buttiamo.
È possibile pensare ad un progetto delle rovine, non in chiave settecentesca e quindi romantica ma in una chiave di sostenibilità?
Parlando degli spazi che abitiamo ci stiamo occupando di cose e in quanto cose, ci stiamo occupando di materia.
Le cose non sono eterne. Con il tempo le cose perdono il loro centro a causa di un nostro mancato rinnovamento di interesse o a causa del fatto che le cose deperiscono in quanto si guastano, si consumano o si rompono.
Un tempo c’era un “posto per ogni cosa e ogni cosa andava al suo posto”. C’era un tempo e uno spazio per le cose. Una volta rotte le cose andavano al loro cimitero come i corpi.
Oggi le cose che abbandoniamo ci tornano indietro come boomerang occupando il nostro stesso spazio vitale, confondendosi con esso.
Questa convivenza con gli scarti ha portato ad un territorio che ha perso il suo carattere di unità e ad un ripensamento dell’idea di rovina.
Le città storiche europee ad esempio producono “rovine” per poter procedere nella loro storia.
Ma lasciano dietro di sé un sistema puntiforme di residui che per dimensione non riescono a rientrare in una nuova economia che vede nel riuso delle rovine contemporanee un elemento di valore.
Due tendenze
Innanzitutto di quali rovine stiamo parlando? E in che senso ne parliamo?
Stiamo parlando di ciò che resta, di ciò che all’interno di un processo di trasformazione territoriale si configura come residuo, come resto, sia che sia una maceria sia che si tratti di scarti di produzione per arrivare a considerare quei manufatti che escono dall’attenzione e dalla vita stessa della città.
Cosa si può fare di tutto questo?
Per semplificare ci sono almeno due tendenze in corso sul territorio: la prima tendenza è quella della riconversione, del riciclo e del riuso che stanno alla base di una sostenibilità del progetto. Usando le parole di Paz, si tratta di quelle attività che producono valore partendo proprio dagli scarti, dai rifiuti e dalle varie materie abbandonate e ottenuto in un processo virtuoso di trasformazione. Ci sono poi le rovine che restano negli interstizi di queste attività, che sono meno visibili che vengono poi dimenticate. Sono gli scarti quelle parti di territorio marginali spesso abitati dalle fasce più povere della popolazione, spazi allontanati, rimossi e svalutati dalla città produttiva.
Questi territori sono la testimonianza della nostra attitudine di costruire valore attraverso la capacità di separare, di riconoscere ciò che è buono da ciò che non lo è. Non riuscendo a non produrre scarti questi vengono allontanati, differenziati e stivati.
Sembra impossibile di non poter vivere luoghi nei quali spazzatura, rovine, ruderi non ci contaminano o non ci sommergono.
Il percorso della sostenibilità di un progetto parte proprio da questa idea di non produrre scarti dietro di sé o di ridurre al minimo questa produzione. La trasformazione dei beni, che siano territoriali nel senso di urbanistici o prodotti di altro tipo se riesce a non produrre scarti o se riesce a direzionare questi all’interno di una altra attività produttiva che li ricicla si definisce certamente sostenibile.
I rifiuti e gli scarti non si producono naturalmente: alla base c’è un vero progetto di differenziazione, di attribuzione di valore e di appropriazione delle parti buone a spregio di ciò che non consideriamo più come tali.
In questo ragionamento si è fatta luce un nuovo modo di vedere in questi ultimi anni: ci sono persone che non affrontano più il problema della demolizione in un senso di produzione di rifiuti e non solo in una chiave di dismissione o di semplice riciclo ma proprio in una chiave di progetto di demolizione dove l’attività, per una volta, non è la ri-produzione dello spazio abitato ma la sua cancellazione.
Un caso molto italiano è ad esempio la politica programmata di demolizione delle case dovute all’abusivismo che dopo aver prodotto la rovina del territorio ne tenta un recupero attraverso la cancellazione della causa.
Altri esempi sono i casi delle demolizioni della Courneuve in Francia, un modello di Ville Nouvelle che se nel 1986 era stato pensato come il meglio da offrire alle popolazioni che entravano nell’economia della metropoli francese con il tempo si trova a dover affrontare un insostenibile costo di esercizio per la società.
L’insieme di questi territori, di questi spazi semi-abbandonati seppur popolati, di spazi residuali e di cose buttate ha prodotto.
Ricostruire da zero
Non è quindi il problema di riciclare parti del territorio e la materia che la compongono ma proprio una ricostruzione di un nuovo valore all’interno di una attività di demolizione, abbattendo il frutto di una originaria differenziazione di valori che ha prodotti dei veri cancri urbani.
È una massa indifferenziata che si configura sempre più spesso come una sorta di natura aberrante che stiamo opponendo alla natura naturale: è pervasiva, la troviamo ovunque e sembriamo compiacercene.
È la massa che esprime il contemporaneo nello Junkspace di Rem Koolhass. Il Junkspace, è nominato ed evocato dall’autore come una massa talmente totalizzante da far disperare che esistano forme alternative possibili: “Il Junkspace prospera nel progetto, ma il progetto muore nel Junkspace. Non c’è forma, solo proliferazione… Il rigurgito è la nuova creatività; invece della creazione, onoriamo, apprezziamo e abbracciamo la manipolazione”. E qui torna Octavio Paz, la sua poesia dedicata all’artista John Cornell: rileggendolo possiamo pensare ad una soluzione che va oltre l’accettazione di questa massa totalizzante; questa natura contiene le forme future che possiamo pensare, l’amorfo dal quale trarre nuove origini.
La lettura cinica e provocatoria di Rem Koolhass fa i conti con il contemporaneo ma non con il tempo.
In questi spazi il tempo non è il grande scultore della Yourcenar, non produce grandi rovine a ricordare una grande civiltà o un grande personaggio.
Il tempo produce solo polvere e alla polvere le città dovranno tornare per ripartire da zero.
L’architettura deve avere il coraggio di lasciarsi cadere, di lasciarsi demolire ogni qualvolta la sua vita ha raggiunto il termine.
L’architettura ha uno strano destino: pensata per durare in eterno, nel momento preciso in cui costruisce la sua prima grandiosa opera costruisce pure la sua prima grande rovina che la storia ricordi, e questo non solo nella tradizione giudaico cristiana: la torre di Babele.
Una rovina che ha partorito un grandissimo immaginario.
Ma pure nel rinascimento, Roma si costruisce riutilizzando la materia della Roma antica e copiandone le forme. Il progetto in questo caso passa dalla demolizione di una cultura che allo stesso tempo è il modello della stessa città che la consuma. Una volta ancora: una civiltà per poter ripartire da zero deve polverizzare la civiltà precedente, farne rudere e compiacersene in una dimensione antiquaria. Nel settecento le rovine vengono progettate per il loro valore evocativo. I terremoti producono rovine e le demolizioni conseguentemente ne sono il conseguente progetto che darà inizio al nuovo territorio.
Sino a quando l’architettura contemporanea non smetterà di mirare all’eternità e non sarà più prodotta in un presente sostituibile all’infinito, che la rende eterna, non smetterà di produrre scarti e residui in quanto non abbandonerà mai quel modello di pensiero che produce differenziazione sul territorio.
Rovine da riutilizzare
Che peso ha tutto questo sul territorio? All’inizio si è parlato di materia, ma quanta materia è coinvolta in tutto questo?
Le attività di costruzione e demolizione producono in Italia oltre 40 milioni di tonnellate all’anno di scarti e residui. Una quantità enorme di rifiuti da smaltire che per merito delle nuove politiche in materia può invece trasformarsi in uno straordinario giacimento di manufatti da riutilizzare e di materiali da riciclare, con evidenti vantaggi per l’ambiente.
Il progetto della demolizione, per come lo si intende qui, lavora in questa direzione e nella direzione di pilotare gli scarti, i materiali di recupero procedendo in una nuova formula di differenziazione all’interno della stessa attività di demolizione: una riproduzione di valore operata sulle frazioni di residui, sui “frammenti incoerenti minimi”, da offrire alle attività produttive operanti sul territorio.
E che sia una produzione di valore lo testimoniano le economie che si generano intorno a questa dimensione di recupero di dei materiali.
Come si legge sul sito del progetto Vamp (VAlorizzazione Materiali e Prodotti da demolizione), sostenuto dall’Unione Europea nell’ambito del programma LIFE-Ambiente e coordinato dalla Regione Emilia-Romagna: sfruttare questo giacimento è possibile, se si riesce ad organizzare e rendere efficiente un “mercato dell’usato” di componenti e materiali da costruzione, ambientalmente conveniente ed economicamente sostenibile, a cui i produttori di scarti e i potenziali riutilizzatori e riciclatori possano accedere in modo facile e rapido.
In qualche modo si parla di una raffinazione degli scarti, in quanto mette in campo una differenziazione non per scartare ma per ricollegare parti scollegate, che hanno perso senso.
In questa corrente di progetto che lavora sulla demolizione dell’architettura, c’è una rilettura in chiave moderna del progetto della rovina romantica settecentesca operata da Gordon Matta Clark che come scrive Wikipedia… “E’ famoso per il suo ‘taglio di edifici’, una serie di lavori eseguiti su edifici abbandonati nei quali rimosse artisticamente sezioni di pavimenti, soffitti, e muri”. Lavora materialmente su oggetti edilizi abbandonati trasformandoli in vere sculture in attesa della permanente demolizione.
L’estetica della Demolizione in chiave di riciclo è alla base di molti designer e architetti: tra questi gli olandesi 2012 Architecten che utilizzano parti di edifici, elementi di scarto vari.
La demolizione genera valore
Si sarà colto che in questa idea di progetto di demolizione è il processo che viene chiamato in causa, il processo che genera valore: delle aree urbanistiche, dei materiali da riciclare e degli operatori stessi che esercitano il loro lavoro.
Il progetto di demolizione è inoltre un progetto che viene pensato a monte, all’atto della sua edificazione in quanto sempre più prenderà corpo un dimensione più sostenibile dell’architettura: la sua temporalità, la sua durata. Ma cosa è un progetto di demolizione sostenibile e che caratteristiche ha un cantiere di demolizione?
Una società di demolizione o di decostruzione è paragonabile ad una società che fa ricerche minerarie: usa l’esplosivo, ricerca tra le rovine che produce materie nobile non da smaltire ma da vendere, da riproporre al mercato della trasformazione.
La sostenibilità della demolizione chiude il cerchio
Quando si parla di sostenibilità di un edificio è necessario pensare al suo intero ciclo di vita. Si parte dalla sostenibilità dei materiali da costruzione (cioè quanto questi consumino risorse naturali non rinnovabili), per trattare poi dell’impatto dei metodi di costruzione sull’ambiente, sino ai costi di mantenimento dell’edificio e, infine, alla sua demolizione e quindi alla possibilità che questo si ri-produca attraverso il riciclo dei prodotti di smaltimento.
Bibliografia
- Rem Koolhaas, Junkspace, 2006, Quodlibet, Macerata
- Emmanuele Pilia, Una rovina perpetua, in Divenire 4, Sestante Edizioni
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L'autore
Fabio Fornasari
Fabio Fornasari alterna la pratica professionale con la didattica presso la NABA - Nuova Accademia di Belle Arti - di Milano e la Facoltà di Sociologia di dell’Università di Urbino “Carlo Bo”. Suo il progetto per il museo del Novecento a Milano.
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