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Mappe concettuali per paesaggi sostenibili

Devono cambiare i paradigmi con cui si pensa ed elabora l’occupazione dello spazio da parte dell’uomo. Sta già avvenendo, in progetti innovativi. Il commento

Scritto da il 27 maggio 2010 alle 8:01 | 0 commenti

Mappe concettuali per paesaggi sostenibili

Si deve costruire un nuovo modo di pensare e di pianificare lo spazio delle attività umane sull’intero pianeta. Servono nuove discipline. Quelle tradizionali infatti sono incapaci ormai di gestire ciò che hanno prodotto, cioè l’insostenibile occupazione del pianeta.

L’urbanistica ai vari livelli, la geografia economica, le stesse istituzioni di governo del territorio hanno avviato processi che considerano lo spazio sotto la loro giurisdizione come un puzzle, una raccolta di lotti di terreno affiancati gli uni agli altri con determinate destinazioni d’uso.

Un modello competitivo delle aree basato sulla capacità di produrre profitto. Bisogna invece cominciare a concepire il paesaggio come uno spazio di condivisione. Il che non significa ridiscutere la potestà delle aree ma cavalcare una idea che abbiamo imparato usando internet in questi anni: quello che facciamo e pensiamo può essere utile ad altri. Le tradizionali istituzioni potrebbero acquisire il ruolo di registi, di raccoglitori di pareri esperti all’interno di un pensiero progettuale condiviso e continuamente posto sotto revisione.

Un nuovo paradigma

L’attività umana ha occupato, insostenibilmente, l’intera superficie del pianeta. In questa attività di occupazione ha lasciato dietro di sé spazi residuali, parti di territorio che nel tempo sono stati abbandonati e che per continue partizioni sono rimasti dimenticati, rimossi dalla coscienza di sfruttamento che li ha prodotti. Questo ci mostra Gilles Clement nel suo Manifesto del Terzo Paesaggio (ed. Quodlibet 2006).

Potremmo dire che questi residui sono l’immagine di un modo sbagliato di abitare il pianeta e limitarci a questa considerazione.

Potremmo pure trovare nuova ricchezza o nuovi pensieri per sfruttare il residuo. Ma è dal riconoscimento di questa evidenza, di questo rimosso della nostra coscienza, questa volta ambientale, che potremmo ripartire.

Queste le premesse e questo l’assunto: gli strumenti tradizionali di gestione e controllo del territorio che siamo abituati ad usare per conoscere il paesaggio e per pensare e attuare la pianificazione o più in generale gli strumenti del progetto di architettura non sono più sufficienti: è necessario cambiare paradigma, modello intellettuale, per osservare e studiare e quindi progettare il paesaggio e le cose che questo contiene.

Occorre sviluppare nuove attitudini che suggeriscono un diverso statuto del paesaggio e del territorio, concependolo come uno spazio di condivisione. Queste considerazioni non hanno una natura necessariamente legata alla proprietà; non deve cioè ridiscutere la potestà delle aree ma deve cominciare considerare una idea che abbiamo imparato usando le reti in questi anni: quello che facciamo può essere utile ad altri; quello che pensiamo può essere importante anche per altri. Le tradizionali istituzioni potrebbero acquisire il ruolo di registi, di raccoglitori di pareri esperti all’interno di un pensiero progettuale condiviso e continuamente posto sotto revisione.

Ripensare il paesaggio

Con il termine paesaggio non si intende più da tempo una semplice questione visiva ed estetica, ma più in generale l’insieme di tutte le cose che in qualche modo contribuiscono a costruire e definire l’ambiente in cui viviamo.

In qualche modo dobbiamo considerare questo paesaggio come costituito non più come una semplice superficie bidimensionale da tempo occupata prevalentemente da funzioni umane.

Il problema è quello di riconoscere all’interno di questa superficie a due dimensioni di natura giuridica uno spessore, una profondità all’interno della quale operare per introdurre nuove idee, nuove conoscenze. Questo serve anche per utilizzare le nuove tecnologie in una direzione corretta e non di semplice consumo di territorio o di aggiornamento tecnologico.

Le mappe che fino ad ora abbiamo utilizzato per raccontarci – le carte geografiche – sono diventata “mute” in quanto incapaci di “raccontare” e spiegare la realtà. Il racconto che ci fa la rete del territorio, Google Earth , è di un sistema complesso, infernale, pieno di notizie governato apparentemente, dalle informazioni. Ci dà l’illusione che tutto possa andare bene così. Che sia tutto sotto controllo.

Nelle idee neo-geografiche la geografia si è accresciuta dell’informazione che viene collocata sulla mappa non più e solo dai geografi umani o dai geografi politici.

Il problema non è più di rappresentare l’evidenza fisica della realtà del paesaggio che conosciamo, ma rappresentare la complessità che stiamo vivendo per capirne le dinamiche, come queste si spostano e mutano nel tempo.

Per questo il lavoro della progettazione del territorio e sul territorio non nasce più da una dimensione di tipo normativo – il paesaggio regolamentato – o di tipo emotivo – il bel paesaggio.

C’è un problema di natura concettuale rappresentato dalla necessità di governare la complessità che insiste nei nostri paesaggi: una quantità di cose di natura sistemica che non riusciamo più ad abbracciare con un solo sguardo interpretativo o con lo sguardo delle normali discipline.

Questa realtà complessa, per essere compresa, ha bisogno di essere “semplificata” attraverso delle mappe concettuali non più semplicemente geografiche che svelano gli elementi sui quali ci si deve muovere per risolvere, proporre e decidere delle diverse soluzioni d’uso del territorio.

La nuova coscienza del paesaggio

In qualche modo sul paesaggio si sta costruendo una nuova consapevolezza: non ha più senso parlare di spazi alti – esempio i siti dell’UNESCO, i centri storici, i monumenti – e di spazi di bassa qualità perché la compresenza di più attività sui territori e la mancanza ormai di bacini vergini di paesaggio porta necessariamente a dovere intervenire su ciò che già c’è.

Non si può più considerare la dualità centro periferia come l’asse portante delle scelte. Le periferie hanno rubato l’attenzione dei centri in quanto sono l’evidenza della vera pandemia che ci ha colpiti.

L’uso che facciamo degli spazi e il consumo è ormai una collezione indistinta di atti di consumo.

Per fare un esempio con il paesaggio del turismo i luoghi di destinazione riflettono il concetto delle collezioni di moda che cambiano da una stagione all’altro e come quegli oggetti sono collezionabili.

Questa complessità per essere governata ha quindi bisogno oggi di nuovi tipi di progetti che sappiano riconoscere le dimensioni del cambiamento e non tanto elementi in varianti.

Per lavorare sul paesaggio occorre oggi ad esempio utilizzare dei paradigmi concettuali differenti da quelli disciplinarmente legati allo studio e alla descrizione del paesaggio tradizionale.

Ad esempio vanno cercati gli indizi, scoperti quegli elementi non evidenti che permettono di riconoscere una possibile via di intervento, di trasformazione non più del paesaggio inteso come composizione e bilanciamento tra naturale e artificiale, ma tra un paesaggio che ha delle patologie in quanto cresciuto su regole che non sono in grado di lavorare con gli elementi vitali e non semplicemente con i suoi spazi.

Le distanze stesse tra i modelli di analisi e le metodologie progettuali si è oggi assotigliato: in qualche modo si comincia a notare una nuova cultura del progetto. Tra la teoria e la prassi si sono creati dei forti ponti concettuali e metodologici che ci mostrano una nuova idea che valorizza il paesaggio.

Per capire oggi il paesaggio è necessario lavorare sullo sguardo, sull’apertura a nuovi osservatori non necessariamente scienziati: intellettuali, artisti ecc. “Il paesaggio diviene campo d’indagine aperto: strumento in dialogo con ogni singola esperienza professionale, che si svolge intrecciandosi al territorio, rifondando la sua conoscenza, il suo uso. Paesaggio da usare, da manipolare, secondo i metodi di un tavolo di lavoro, in cui le caratteristiche fisiche del territorio vengono esplorate con tecniche sperimentali, sia teoriche che pratiche, nella volontà di esporre la stratificazione complessa delle differenti modalità d’intervento, dei singoli attori, delle risposte progettuali sempre parziali, specifiche e mai definitive, da applicare ad un paesaggio in naturale metamorfosi, divenuto la manifestazione trasparente del mondo contemporaneo.
 
Paesaggi Straordinari, ricchi di una complessità territoriale irrinunciabile, che compone un puzzle infinito da esplorare pezzo per pezzo, caso per caso, nella consapevolezza di vivere un processo di conoscenza, di progettualità interattiva con il territorio, che appartiene al nostro vivere quotidiano”. Queste parole fanno parte del bando per il master Paesaggi Straordinari che si è tenuto nel 2008/2009 alla NABA, la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano dove architetti, artisti, sociologi, antropologi, studenti e altre figure ancora si pongono intorno a un tavolo per studiare strategie di produzione di paesaggio di qualità.

Questo approccio si dà il compito di formare nello studente un approccio metodologico di ampio respiro che coniuga tutti gli elementi messi in gioco e lo avvicini alla materia con uno sguardo ad occhi aperti che nasce dalla conoscenza, dal confronto, dall’esperienza, senza nessun preconcetto storicista o ideologico previo ad ogni possibile azione progettuale aderente al territorio.

Gruppi di lavoro

Come questo ci sono altri progetti in corso per definire nuove strade e nuovi strumenti di intervento. Un altro progetto interdisciplinare che lavora sulle pieghe del paesaggio è il VisionLab che si sta strutturando presso la Triennale di Milano voluto e sostenuto con il proprio lavoro da Alberto Pizzati, architetto e Professore presso il Politecnico di Milano che da anni si occupa di progetti di qualità nello spazio pubblico a partire dalla presenza dei bambini come persone attive, spesso dimenticati nelle stanze di un appartamento o nelle aule di scuola.

Andando a visitare il sito del gruppo di lavoro, http://www.visionlab.triennale.it/, si incontra subito un elemento perturbante: un mare filmato dall’artista Daniele Pignatelli che ci evoca un tema importante ora deciso solo dall’economia politica e dalle multiservizi: l’acqua.

La progettazione sul territorio, considerando l’acqua come “cosa mobile”, non la considera sufficientemente elemento del quale tenere conto nella progettazione.

L’acqua non è mappabile in sè. Se ne può solo suggerire la sua presenza attraverso le sue tracce: il letto di un fiume non è l’acqua, una costa non è il mare che gli si oppone.

Il Visionlab ha come obiettivo quello di fare ragionare artisti e scienziati sul tema dell’abitare; ha l’ambizione di fare ripartire la progettazione all’interno di un quartiere milanese, la Bovisa, che una volta abbandonato dall’industria è diventato una collezione di spazi vuoti, di residui e di edifici universitari che lasciano comunque deserta questa zona in diverse fasce orarie.

Questo vuoto è visto come occasione per rifondare un nuovo pezzo di città che parte su alcuni semplici principi che ridefiniscono i ruoli: i bambini, la natura, la cultura abitativa e l’acqua. Si tratta di un pezzo di città che potrebbe farsi vetrina e banco di prova per tutta la città, per suggerire un diverso modo di procedere.

La normale pianificazione non prevede che specifici soggetti si occupino del territorio se non sono professionisti. Qui le idee progettuali si confrontano in tavoli di lavoro che prevedono giornate di studio, progetti e concorsi per studiare soluzioni, suggerire nuovi metodi.

Un altro esempio interessante di queste nuove forme di lavoro sul territorio è rappresentato da Reggio Emilia che conta diversi laboratori urbani per pilotare il rinnovamento del proprio tessuto. In particolare mi riferisco al Centro Internazionale Malaguzzi. L’investimento sull’infanzia, che la città di Reggio Emilia conferma forte e prioritario da oltre 40 anni, è un’esperienza che dimostra come l’educazione possa essere una risorsa fondamentale per le città, per lo sviluppo della qualità del vivere quotidiano. In qualche modo il centro, seppure lavorando con i ragazzi, fornisce uno strumento di autorappresentazione per tutta la città. L’elemento pedagogico diretto sull’infanzia è diventato un elemento utile anche per ripensare la più generale attività di gestione, controllo e trasformazione del territorio.

Tornando all’acqua è un elemento mobile come mobili sono le persone. Nemmeno loro possono essere mappate. Sono mappabili i luoghi di lavoro quando istituzionalmente riconosciuti. Come mappare l’attività lavorativa delle “partite iva” che sviluppano il proprio operato in luoghi differenti dai laboratori, dagli studi professionali. Chi scrive ad esempio si trova su un treno che si sposta a 300 km/h tra Bologna e Milano.

Neppure le relazioni sociali possono essere mappate.

Negli stati uniti, sul tema della mappatura, un gruppo di artisti, intellettuali, architetti e professionisti di corrente radicale ha cominciato anni fa a studiare dei modi per mappare alcuni fenomeni della città. Mapctivism è il termine che leggiamo oggi per fare comprendere l’importanza che l’attività di mappatura e la sua importanza in una attività diretta verso la trasformazione sociale.

Lo scopo non è solo quello di conoscerli, trarne una rappresentazione per immagini stampate su carta. L’utilità di questi nuovi strumenti risiede nel coscienza della società nella quale viviamo e per costruire un differente “saperci fare”, per operare sul territorio con delle politiche sociali appropriate, sensibili e sostenibili (cfr. An atlas of Radical Cartography, Lize Mogel e Alexis Bhagat, Journal of Aesthetics Protest Press, Canada 2008).

Una mappa concettuale

Per concludere il paesaggio, la nostra realtà, ha bisogno di questo tipo di progettazione, integrata con nuove competenze inaspettate talvolta di grande sensibilità di osservazione e di lettura; ha bisogno di nuovi strumenti, nuove competenze, non sempre note e che specialmente rispondono a dinamiche differenti da quelle delle archistar e degli urbanisti. Il problema qui non è più quello dell’identità dio un territorio. Non è più solo una questione di stile.

Ha bisogno di dotarsi di strumenti innanzitutto per leggerre, per comprendere il paesaggio, nel momento in cui il territorio si presenta come indistinto e mobile nello stesso momento.

Uno strumento di lettura è la mappa, non più topografica, ma concettuale. Il problema dei vecchi sistemi di descrizione, le carte topografiche, è la loro assertività: non lasciano alcun dubbio. Registrano ciò che già è stato deciso.

La mappa concettuale è una guida per gestire la complessità, altrimenti insopprimibile, del pianeta che stiamo vivendo. Ma la mappa concettuale è lo strumento, la nuova carta sulla quale scrivere, è la tavola di lavoro dei nuovi attori sempre più partecipanti sul territorio.



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L'autore

Fabio Fornasari

Fabio Fornasari alterna la pratica professionale con la didattica presso la NABA - Nuova Accademia di Belle Arti - di Milano e la Facoltà di Sociologia di dell’Università di Urbino “Carlo Bo”. Suo il progetto per il museo del Novecento a Milano.


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