Ecosostenibilità
Cibo più green se passa dalla Carbon footprint
Il calcolo dell’impronta carbonica dei prodotti è indispensabile per ridurre le emissioni. Ma è anche utile a livello economico e di immagine aziendale
I cambiamenti climatici passano anche attraverso la nostra tavola. L’industria alimentare è il settore più esposto ai rischi dei cambiamenti climatici indotti dai gas serra. La zootecnia, da sola, contribuisce per il 18% a tutte le emissioni di gas serra, segnala un recente report Wwf.
Per questo sono importanti tutti i processi che portano a una maggiore ecosostenibilità. Un importante strumento, in questo senso, è la carbon footprint (CFP), il calcolo delle emissioni dei gas serra nei prodotti. O più precisamente, la somma delle emissioni e delle rimozioni del sistema che genera un prodotto lungo il suo ciclo di vita.
Come spiega Leonard Bernardelli, di CSQA Certificazioni, «innanzitutto è bene chiarire che per carbon footprint ci si riferisce sempre ai prodotti. Per questi è necessario passare innanzitutto attraverso l’LCA (Life Cycle Assesment), l’analisi del loro ciclo di vita, metodo utile a quantificare, interpretare e valutare gli impatti ambientali di uno specifico prodotto o servizio durante l’intero arco della sua vita. Tale strumento ha quali riferimenti le norme ISO 14040 e ISO 14044. Da qui discendono i principali standard riconosciuti: la Dichiarazione ambientale di prodotto (EPD – Environmental Product Declaration), uno schema di certificazione volontaria, nato in Svezia ma di valenza internazionale, che rientra fra le politiche ambientali comunitarie. Di recente è stata emanata la ISO TS 14067, standard che si propone di migliorare la chiarezza e la coerenza delle attività di quantificazione, reporting e comunicazione della carbon footprint di prodotto, e che diverrà il riferimento specifico nel futuro. Altri riferimenti a livello internazionale sono il GHG Protocol e il PAS 2050».
In diversi Paesi è stata avviata l’etichettatura CFP dei prodotti mentre nel contesto italiano manca ancora, malgrado, illustra Bernardelli «negli ultimi anni il ministero dell’Ambiente abbia avviato una campagna per il calcolo della carbon footprint: si tratta di strumenti che passano attraverso bandi pubblici per l’analisi dell’impronta di carbonio nel ciclo di vita dei prodotti di largo consumo o impegni volontari delle imprese per la valutazione dell’impronta ambientale. Queste iniziative hanno interessato un gran numero di aziende, anche del settore alimentare». In ogni caso, evidenzia il manager CSQA, si nota una maggiore sensibilità e attenzione verso questi temi, anche perché «l’interesse verso processi per una minor emissione di CO2 corrisponde anche a minori costi», per cui sussiste un vantaggioso binomio tra benefici ambientali ed economici. C’è anche un fortissimo motivo esterno che è rappresentato dall’appeal suscitato dal tema della sostenibilità, sempre più sensibile per l’immagine di organizzazioni e aziende».
Ci sono poi diverse ricerche che comprovano che i consumatori sono molto sensibili a questi temi e sono disposti in moltissimi casi anche a spendere qualcosa in più per avere un prodotto che offra garanzie anche in materia di sostenibilità. Tali garanzie, per essere verificabili, si hanno solo mediante il percorso di certificazione, ossia una verifica di parte terza riconosciuta che opera con standard validi e altrettanto riconosciuti», chiosa Bernardelli.
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L'autore
Andrea Ballocchi
Andrea Ballocchi, giornalista e redattore free lance. Collabora con diversi siti dedicati a energie rinnovabili e tradizionali e all'ambiente. Lavora inoltre come copywriter e si occupa di redazione nel settore librario. Vive in provincia di Milano.
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