Cop 21
Clima: i contesti contano. Per la sconfitta
S'avvia la settimana decisiva per Cop 21, ma il documento uscito dalla sessione tecnica pone le basi per una sconfitta mascherata da successo.
Parigi entra nel vivo e nell’ambiguità delle contrattazioni sul clima. E con non pochi problemi. Il documento emerso dagli incontri tecnici della settimana scorsa, infatti, ha delle pesanti incognite. Per dare un’idea si tratta di un documento di 48 pagine con 940 parentesi quadre, che nel gergo diplomatico significano le parti sulle quali ancora non c’è accordo, e da quale sono “sparite” questioni cruciali come l’equità intergenerazionale e le rinnovabili, insomma un documento che nelle migliori delle ipotesi prenderà per buone le indicazioni volontarie di riduzione dei singoli paesi, gli INDC (Intended Nationally Determined Contributions) dalle quali ci si può attendere un risultato al 2100 ben più alto dei 2°C, la stima delle Nazioni Unite è di 2,7°C ma altri analisti s’attendono un riscaldamento globale compreso tra i 3°C e i 4°C. E se andrà bene, ma bene sul serio per come è impostata la Cop 21 avremo un accordo che sancirà la trasparenza del monitoraggio in maniera di verificare se le singole nazioni facciano sul serio o barino, come è successo con la Cina il ufficio di statistica ha di recente ammesso d’aver sbagliato sui consumi di carbone degli ultimi anni. E non di poco, ossia del 16% l’anno.
Del resto è chiaro da mesi il fatto che si sia operata una vera e propria azione di mascheramento sul clima per evitare una ripetizione dell’esito di Copenaghen che avrebbe scosso in maniera secca l’opinione pubblica, specialmente europea e anglosassone. L’approccio della Cop 21, infatti, è esattamente l’opposto della Cop 15 del 2009 aCopenaghen. In Danimarca, infatti, vigeva un approccio all’alto, potremmo dire seguendo il metodo scientifico, con il quale si identificava la necessità di riduzione delle emissioni climalteranti, e si suddividevano le quote dividendole, con un approccio dall’alto. E fu un fallimento. Oggi per evitare ciò si è partiti da ciò che è possibile fare da parte delle singole nazioni, ratificando le riduzioni e rimandando ulteriori decisioni al futuro. Ossia l’ennesimo rinvio in cambio di una disponibilità, tutta sulla carta, da parte delle singole nazioni a ridurre di più le emissioni in futuro. Se ciò succederà tra pochi giorni, sarà solo ed esclusivamente un’operazione di marketing climatico, spacciato all’opinione pubblica come un successo e si tratterà di una vittoria dei vecchi sistemi energetici e manifatturieri. Questi settori, infatti, sono seriamente preoccupati per ciò che sta succedendo a livello mondiale sul fronte dell’efficienza e delle rinnovabili e su come stiano mutando i paradigmi di consumo delle nuove generazioni. Il consumo per queste generazioni inizia a non essere più un sinonimo di sviluppo e inizia a incrinare, solo a incrinare, paradigmi consolidati. Il possesso dell’auto, per esempio, inizia a essere sostituito dal car sharing, e in molti altri settori si incomincia a pensare che l’accesso sia migliore del possesso. E questa è una logica che deve rimanere di nicchia e non può, e non deve essere incentivata da uno shock come quello dell’ennesimo fallimento di una Cop. Per questo motivo una nazione come la Gran Bretagna ha già deciso che la propria strategia di riduzione delle emissioni sarà il gas e il nucleare, quindi sempre legato a un sistema di generazione centralizzata, i cui utenti pagheranno gli incentivi stratosferici, 135 MWe, alla nuova centrale nucleare di Hinkley Point. E non i problemi climatici ad avere indotto la Cina a dichiarare l’inizio delle riduzioni di CO2 dal 2030, ma è l’inquinamento locale e il terrore verso l’introduzione di una carbon tex da parte dell’occidente, cosa che minerebbe la competitività dei prodotti asiatici, ipotesi assolutamente inconcepibile per il gigante cinese visto il rallentamento della crescita del suo Pil. E gli Usa, nel, frattempo hanno truccato le carte puntando su una riduzione del 28% al 2030 ma sulla base delle emissioni del 2005 che quindi sulla base 1990, quella adottata dalle Nazioni Unite, lo “sforzo” diventa un aumento del 4%. Insomma i più grandi inquinatori del Pianeta stanno preparando un successo che potrebbe rallentare i cambiamenti climatici nella migliore delle ipotesi, senza cambiare gli schemi sociali che sono alla base della crisi climatica, e conservando così ancora per qualche anno i modelli di business. Un’operazione di gentile maquillage che però ad alcuni non piace. Ieri, in piena Cop 21, infatti, l’Opec ha deciso di non ridurre le quote di produzione del petrolio, con il risultato di far precipitare le quotazioni dell’oro nero a 38 dollari per barile, il livello più basso dal 2009. Un messaggio chiaro a tutto il settore energetico: «Diciamo che il petrolio è oggi la fonte d’energia più conveniente e redditizia. Oggi e subito», sembra dire l’Opec con questa decisione. E con la scarsa visione prospettica che ha dimostrato fin ad ora la politica a Cop 21 di sicuro c’è chi ascolterà, a Parigi, le “sirene” dei petrolieri.
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L'autore
Sergio Ferraris
Sergio Ferraris, nato a Vercelli nel 1960 è giornalista professionista e scrive di scienza, tecnologia, energia e ambiente. È direttore della rivista QualEnergia, del portale QualEnergia.it e rubrichista del mensile di Legambiente La Nuova Ecologia. Ha curato oltre cinquanta documentari, per il canale di Rai Educational Explora la Tv delle scienze. Collabora con svariate testate sia specializzate, sia generaliste. Recentemente ha riscoperto la propria passione per la motocicletta ed è divenatato felice possessore di una Moto Guzzi Le Mans III del 1983.
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