Tekneco #13 – Mobilità sostenibile
Una strada leggera come Vento
Le infrastrutture leggere sono un’opportunità per il Paese. Un esempio importante è il progetto di dorsale cicloturistica Vento
Articolo a firma di Paolo Pileri, DAStU – Politecnico di Milano
Vento è il progetto di fattibilità della dorsale cicloturistica più lunga d’Italia: 679 km. Una dorsale cicloturistica è una vera e propria infrastruttura con una geometria il più possibile lineare, una larghezza tale da consentire la coesistenza di un paio di corsie, una lunghezza importante (almeno un paio di centinaia di chilometri), pendenze modestissime, accompagnata da aree di sosta attrezzate, possibilmente ombreggiate per quanto possibile e, cosa importante e caratterizzante, esclusivamente ciclabile.
Con queste caratteristiche possono essere utilizzate da un gran numero di ciclisti, di età molto variabile (dai 5 anni in su), non necessariamente esperti. L’infrastruttura ciclabile è il presupposto necessario per il cicloturismo sicuro e massivo, composto e rispettoso dei paesaggi e dei luoghi attraversati. Ma il cicloturista non chiede solo un’infrastruttura sicura e dedicata, chiede anche paesaggi gradevoli, esperienze culturali e per il tempo libero, servizi di supporto per sé e per i suoi mezzi.
Il cicloturismo su infrastruttura dedicata è molto affermato nelle regioni del Nord Europa da decine di anni e rappresenta una quota di turismo importante e oggi in assoluta crescita. Non è facile dimensionare il cicloturismo per via della mancanza di monitoraggio. Un recente studio (agosto 2012) commissionato dalla commissione Trasporti e Turismo del Parlamento europeo all’Institute of Transport and Tourism, University of Central Lancashire (UK) e al Centre for Sustainable Transport and Tourism, NHTV Breda University of Applied Sciences (NL) sostiene che il cicloturismo in Europa ha un potenziale stimabile in oltre 2.300 milioni di viaggi mono-giornalieri e oltre 20 milioni di viaggi plurigiornalieri in un solo anno. Tutto questo movimento sui pedali genera a sua volta flussi economici che sono stimati in 44 miliardi di euro all’anno e occasioni occupazionali enormi sia direttamente che indirettamente.
Ma tutto ciò richiede infrastrutture, rete, servizi e capacità di visione, oltre che cultura. E qui iniziano i problemi per l’Italia. Di infrastrutture leggere, così voglio chiamarle proprio per la leggerezza con la quale entrano nel paesaggio senza ferirlo, in Italia non ne esistono, se non in Trentino Alto Adige (in questa regione i 200 km circa di dorsali cicloturistiche generano indotti economici per oltre 70 milioni all’anno), nel ferrarese e in qualche altra piccola realtà. Ma più preoccupante è il fatto che né il cicloturismo né il relativo fabbisogno infrastrutturale sfiorano l’attuale agenda pubblica alla voce “sviluppo” o “economia” o “rimedi alla crisi”.
Abbiamo a che fare con qualcosa che ferma il nostro Paese (eppure da un paio di anni si vendono più bici che auto: un segnale da non sottovalutare). La ciclabilità nel nostro Paese ha conosciuto ultimamente qualche debole segnale di attenzione, ma quasi esclusivamente per la realizzazione di ciclabili urbane o, al più, periurbane di modesta lunghezza e comunque non per il cicloturismo, che richiederebbe anche di ampliare la visione e farsi promotori di nuovi modelli di sviluppo turistico sostenibili e coordinati tra le Regioni e tra queste e lo Stato.
Non è così in Europa dove molti paesi si sono attrezzati e oggi vantano chilometri e chilometri di piste ciclabili per il turismo plurigiornaliero, lungo le quali si sono sviluppate fiorenti attività ed economie e intere parti di paesaggio si sono svelate. Non è così neppure in sede parlamentare (europea), dove lo scorso 18 dicembre 2012 è stata approvata una risoluzione con la quale le ciclabili entrano a tutti gli effetti nel club delle infrastrutture e il budget a disposizione lievita dallo 0,7 al 10% del budget TEN-T.
Tutto ciò farà sì che nel prossimo periodo 2014-2020 vi saranno circa 6 miliardi di euro anche per chi avrà un progetto di dorsale cicloturistica finanziabile. Il riferimento al quale l’Europa si è ispirata è la rete EuroVelo, una serie di infrastrutture cicloturistiche per un totale di 70.000 Km, dei quali 6.600 previsti proprio in Italia: EV5, EV7 ed EV8 (www.ecf.org). Il tracciato di Vento coincide proprio con una di queste ipotesi, la EV8 (est-ovest, lungo il Po). La sua realizzazione non solo è compatibile con l’utilizzo dei fondi UE ma sarebbe un’occasione preziosa per consentirci di recuperare qualche ritardo nell’infrastrutturazione cicloturistica del Paese, di raccordarci alla rete europea (aprendo le porte ai turisti d’oltralpe che oggi sono solo qualche migliaio) e di dare avvio ad un modello di sviluppo sostenibile che manca nel Paese.
Per capire che stiamo parlando di un’opportunità che non è un capriccio per amatori non c’è miglior prova che leggere i dati di quel che accade lungo alcune dorsali cicloturistiche estere. In Austria la Vienna-Passau con i suoi 320 km lungo il Danubio genera un indotto annuo di oltre 70 milioni di euro (225.000 euro/km*anno). In Germania, la pista lungo il fiume Elba, 840 km, genera indotti per 110.000 euro/km*anno. E similmente la pista lungo la Loira in Francia o lungo la Drava che parte in Italia ma si sviluppa in Austria e Slovenia. Ma non si tratta solo di economia (peraltro “green”), ma anche di occupazione duratura, diffusa e verde che interessa settori quali la ricettività, la ristorazione, l’enogastronomia, le attività culturali, le altre mobilità (navigazione, treno), lo sport. Settori strategici nel nostro Paese.
È chiaro che questo tipo di proposta sposa un’idea di sviluppo che è lontana e diversa da ciò a cui siamo abituati da decenni. Non si tratta né di rendite fondiarie, né di finanza, né di speculazioni immobiliari, né di concessioni, né delle solite ricette fatte di rotonde, superstrade e centri commerciali. Si tratta di mettere a valore e a sistema quel patrimonio di saperi e di attività che da anni sono diffusi e radicati sotto varie forme nei nostri paesaggi e che oggi arrancano perché privati di un disegno e di un motore che li fortifichino e li valorizzino.
Immettere sul territorio oltre mezzo milione di nuovi turisti all’anno (questa è la previsione per Vento) che con lentezza si diffondono qua e là e che con altrettanta lentezza si siedono alle tavole di centinaia di piccoli e medi ristoranti, dormono in migliaia di bed & breakfast o di agriturismi, visitano centinaia di aziende agricole come di musei e centri storici è un’opportunità che attende solo qualcuno che capisca e agisca nel dare avvio alla realizzazione della prima lunga ciclabile italiana.
Ventoè anche un laboratorio per un modello di sviluppo territoriale nuovo e sostenibile. Un modello che diviene anche una sfida con la quale si possono costruire condizioni nuove per riaffermare l’impegno del soggetto pubblico, in particolare dello Stato (visto la scala del progetto, la eco nazionale e gli effetti fuori scala) e delle Regioni (che la legge incarica di programmare la ciclabilità ma che qui devono cooperare tra loro superando i loro confini).
Per questo Vento deve essere un progetto di interesse nazionale. Con progetti come Vento si sposta l’attenzione verso quei territori spesso dimenticati dalle retoriche della crescita e della centralità, dove però vivono milioni di persone e ci sono migliaia di imprese e aziende agricole che sostengono il Paese e curano quei paesaggi. La regione del fiume Po è da sempre considerata un lungo confine posto ai margini. Invece occorre un ribaltamento di prospettiva e dobbiamo imparare a vedere il Fiume, le sue città e i suoi paesaggi, come il centro lineare della più grande valle italiana.
La frammentazione amministrativa e politica con la quale è stato gestito questo territorio fluviale ha alimentato un modello di governo miope che guardava il territorio “spalle al fiume” e che disegnava azioni e strategie preoccupate di soddisfare logiche locali di piccolo raggio, quindi poco o per nulla coordinate tra loro. La prova delle prove, se vogliamo, è stata ed è ancora l’incapacità di coagularsi in un’unica proposta di parco nazionale del fiume Po, che apparirebbe una soluzione naturale e ovvia per avviare un programma di valorizzazione di questo territorio (peraltro Vento tocca una dozzina e più di parchi locali).
E invece il Po è ancora un confine e non certo la palestra per una politica coordinata. In questa frammentazione sta un punto di difficoltà per la realizzazione del progetto Vento o, come preferisco dire, un’occasione storica per elaborare un modello che superi questa visione corta. Come il fiume Po, tanti altri fiumi sono confini e non centri. Come Vento, tante altre ciclabili in tante altre parti del Paese potrebbero divenire il piccolo motore capace di innescare un modello diverso di vivere e governare il territorio.
D’altronde infrastrutture come Vento sono “leganti” per definizione. Possiamo immaginarle come il filo di una collana le cui perle sono le tante città toccate, i beni culturali, i paesaggi agrari e naturali che oggi giacciono dispersi e separati. La bicicletta li può ri-unire. E se tutto ciò non bastasse (certo) a risollevare l’economia di un Paese in crisi, sicuramente può essere un segnale forte e sano per far capire che paesaggio, ambiente, storia, cultura possono intelligentemente generare occupazione ed economia. Non è un caso che il nome nasca proprio dalla fusione di due icone del paesaggio italiano nel mondo: “VEN” per Venezia, capace di inondare di notorietà anche una ciclabile, e “TO” per Torino, città austera e reale, ma anche capitale del lavoro e dell’industria e porta sull’Europa.
Oggi il progetto Vento, il cui disegno giunge da un’attività di ricerca universitaria durata tre anni (gruppo di ricerca attuale: Paolo Pileri responsabile scientifico, Alessandro Giacomel, Diana Giudici) e un migliaio di km di sopralluoghi in bicicletta per studiare i passaggi e le soluzioni tecniche, consiste in un tracciato di 679 km che corre prevalentemente sulle sommità arginali del grande fiume, talvolta in sponda destra e talvolta in sponda sinistra e nel progetto di una serie di manufatti e opere infrastrutturali modulari e replicabili per risolvere tutti quegli ostacoli e quelle mancanze che oggi non consentono di pedalare in sicurezza lungo il Po.
Il 15% del tracciato è già ciclabile in sicurezza e non richiede investimenti. Un altro 42%, invece, utilizzerebbe le sommità arginali (che di fatto sono delle piste naturali e particolarmente belle dato che sono delle vere e proprie sopraelevate sul paesaggio) il cui stato di utilizzo non è ottimale e la cui gestione al momento non è né coordinata né tantomeno rivolta agli utilizzi cicloturistici, tanto è vero che sono almeno una dozzina i modi diversi di gestire l’uso degli argini: a volte è consentito il traffico veicolare, a volte è impedito addirittura il passaggio delle bici, altre volte la vegetazione si è reimpossessata della superficie.
Tutto ciò va riorganizzato con un unico modello gestionale adatto alla mobilità ciclabile, a partire dalla rimozione di tutte le sbarre e gli ostacoli che ne impediscono l’accesso. Un altro 22% richiede interventi ‘leggeri’ consistenti in nuovi tratti o nuove pavimentazioni o nuovi incroci o nuovi tratti urbani. Si tratta di una spesa stimata intorno ai 18 milioni di euro. Infine, il 21% del tracciato richiede forti trasformazioni per rendersi attraversabile dalla bicicletta in sicurezza, a partire dagli attraversamenti fluviali e da tutte quelle opere che possono risolvere i cambi di quota (passerelle e rampe). Qui occorrono 61 milioni di euro.
La spesa totale prevista è pertanto di circa 80 milioni di euro che non è una cifra alta se pensiamo a ciò che quell’investimento è in grado di generare (un centinaio di milioni di euro di indotto all’anno, migliaia di posti di lavoro) o a ciò che si realizzerebbe con quella cifra: con 80 milioni si costruiscono circa un paio di Km di autostrada, che richiederanno una manutenzione costosa, saranno responsabili di impatto ambientale elevato e genereranno indotti non così diffusi. L’infrastrutturazione leggera è una proposta da non sottovalutare o, addirittura, da privilegiare.
Vento è la proposta di un nuovo modello di sviluppo fondato su logiche diverse che richiedono anche una revisione delle retoriche della governance. Per progetti di questa taglia e con questa necessità di fare sistema occorre unitarietà di visione, cooperazione e forte coordinamento. Un modello che non ceda ai localismi e non alimenti la frammentazione politico-amministrativa che tante inefficienze ha generato, ma sia capace di ascoltare la voce dei tanti soggetti sul territorio.
Vento deve essere un progetto nazionale attorno al quale raccogliere gli attori locali, che non devono per forza divenire i costruttori dell’infrastruttura ma, piuttosto, i beneficiari dei vantaggi che la dorsale sarà capace di generare. Vento deve stringere un’alleanza forte con chi si occupa del fiume (a partire dall’autorità di bacino). Questo è lo spirito che, fin dal nascere dell’idea, ha animato il progetto, scrivendo una delle sue pagine più belle, quella della partecipazione e del sostegno di cittadini (circa 3000), associazioni locali e nazionali (circa 40) e di tante amministrazioni locali (oltre 30 – cfr. www.progetto.Vento.polimi.it).
Questo sostegno si è composto proprio sposando (e addirittura sottoscrivendo un protocollo di intesa) quell’idea secondo cui il soggetto locale ‘domanda’ allo Stato e alle Regioni la realizzazione di un’opera che ritiene vitale e sostenibile, senza dover partecipare direttamente alla realizzazione e alla progettazione e senza pretendere che singoli interessi specifici appesantiscano il costo dell’opera o ne snaturino il senso con deviazioni o sdoppiamenti innaturali per una dorsale cicloturistica. Vento è quindi anche un laboratorio di partecipazione che ha dato interessanti frutti e offerto una prospettiva nuova di cooperazione locale e di ruolo del soggetto pubblico nazionale.
Infrastruttura cicloturistica denominata Vento, da Torino a Venezia.
Lunghezza tracciato prevista
679 km
Team
- Paolo Pileri, ideatore e responsabile scientifico
- Alessandro Giacomel
- Diana Giudici
- Chiara Catarozzolo
- Luca Tomasini
Per il Laboratorio MOVE del Politecnico di Milano:
- Sergio Savaresi, responsabile scientifico
- Andrea Bianchessi
- Carlo Ongini
Finanziatori
- Regione Lombardia
- Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DIAP, oggi DAStU) del Politecnico di Milano
- BLM Spa
- Scuola di Architettura e Società
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