Tekneco #11 - Trasporti
Sotto l’albero delle gomme
Si studia come migliorare la coltivazione dell’Hevea brasiliensis. Ma già oggi è possibile produrre pneumatici a partire da mais, riso e soia. O bucce d’arancia
Semi di soia, riso, mais, una spruzzatina di buccia di agrumi e qualche petalo di dente di leone. Non sono gli ingredienti di una ricetta orientale ma le materie prime che da qualche anno a questa parte fanno parte (o faranno parte a breve) della mescola degli pneumatici ecologici.
I problemi legati all’approvvigionamento di gomma naturale e agli impatti ambientali di quella sintetica hanno infatti spinto la ricerca a vagliare altri sistemi per ottenere quello che è un componente fondamentale degli pneumatici, la cui produzione ne assorbe ben il 70% del totale. La gomma naturale viene in gran parte ricavata dall’Hevea brasiliensis, un albero di trenta metri di altezza originario dell’Amazzonia che attualmente cresce quasi esclusivamente nel Sud-Est asiatico; ancora oggi si ottiene raccogliendo a mano il lattice che fuoriesce dalle incisioni del tronco.
Negli ultimi anni è diventato sempre più pressante il problema relativo alla produzione di gomma naturale: a fronte della crescente domanda a livello mondiale ci sono infatti difficoltà di approvvigionamento, i cui motivi vanno ricercati da un lato nella sostituzione di parte delle piantagioni di Hevea con palma da olio per l’industria dei biocarburanti, e dall’altro nell’infestazione che sta colpendo l’albero della gomma. La malattia, dovuta a un batterio che attacca le radici e porta la pianta alla morte, è di difficile individuazione e non esiste altra cura oltre all’asportazione della parte colpita, cui seguono dei trattamenti chimici.
L’enorme importanza che l’albero della gomma riveste per l’industria degli pneumatici ha spinto nel 2010 la Bridgestone ad impegnarsi, in collaborazione con l’Istituto giapponese di scienze industriali e tecnologia (Aist) e l’Agenzia indonesiana per la valutazione e l’applicazione della tecnologia (Bppt), in un progetto di ricerca gestito dal Nedo (New Energy and Industrial Technology Development Organization, un’agenzia indipendente attiva nei paesi in via di sviluppo) che ha messo a punto nuove soluzioni per la lotta a questo batterio (Rigidoporus microporus). Inoltre lo scorso luglio la compagnia giapponese ha annunciato che gli studi condotti in collaborazione con l’Istituto nazionale di genetica di Mishima (Giappone) hanno portato alla decodifica della sequenza genetica principale dell’Hevea brasiliensis.
A detta della Bridgestone, questa scoperta permetterà di “sviluppare nuove tecnologie per migliorare la coltivazione dell’albero della gomma e sviluppare una qualità di Hevea più resistente e produttiva. Attraverso queste ricerche, Bridgestone continua a percorrere la strada della sostenibilità per raggiungere il proprio obiettivo che mira alla produzione entro il 2050 di pneumatici di ottima qualità e tecnologicamente avanzati con materiali sostenibili al 100%”.
Sostenibile?
Per alcune case di produzione la sostituzione di derivati del petrolio con materiali di origine naturale è ecosostenibile per definizione, anche quando avviene grazie ad organismi transgenici o a nanotecnologie, con buona pace del principio di precauzione. Viene però da chiedersi se in questi casi si può ancora parlare di sostenibilità, in particolare quando si entra sul delicato terreno della clonazione, che la stessa Bridgestone dichiara essere uno dei possibili sviluppi pratici della scoperta (“The data also may accelerate research applications in a variety of fields, including the development of a clone with superior disease resistance and stress tolerance”). Un’altra direzione presa dalla ricerca punta allo sfruttamento di una pianta alternativa all’Hevea brasiliensis. Si tratta del cosiddetto Guayule (Parthenium argentatum), un arbusto perenne non destinato all’uso alimentare originario del Messico, il cui impiego nella produzione della gomma fu già ampiamente sviluppato durante la seconda guerra mondiale, quando il Giappone impedì agli Usa di sfruttare le piantagioni malesi. La sua coltivazione è a basso impatto ambientale, dal momento che richiede poca acqua e non necessita di pesticidi.
Rispetto al lattice ottenuto dall’Hevea, quello di Guayule è ipoallergenico, caratteristica che lo rende prezioso soprattutto in altri campi di largo consumo, come quello medicale. Numerosi sono quindi gli investimenti che puntano su questo arbusto, e l’industria italiana non è rimasta a guardare. La Versalis (del gruppo Eni, è un’azienda chimica leader mondiale nella produzione di elastomeri) ha siglato con la Yulex Corporation, produttrice di biomateriali a base agricola, un accordo che copre l’intera filiera: dalla coltivazione del Parthenium, all’estrazione della gomma vegetale, fino alla costruzione di una centrale elettrica a biomasse. La seconda fase del progetto prevede un investimento specifico per studiare una bio-gomma destinata alla produzione degli pneumatici, e la realizzazione di un complesso produttivo industriale nell’Europa del Sud.
Se son rose, fioriranno…
“Sappiamo che esistono più di 1.200 tipi di vegetali da cui teoricamente è possibile ricavare gomma naturale, ma scovarne uno che possa praticamente produrre la qualità e la quantità di gomma che serve per il mercato dei pneumatici attuale è una vera sfida” ha dichiarato Hiroshi Mouri, presidente del Bridgestone Americas Center for Research and Technology, sottolineando come la sua compagnia questa sfida l’abbia accettata, e continui ad investire risorse per trovare delle alternative sostenibili al caucciù naturale. Anche la casa giapponese ha dimostrato il suo interesse verso il Guayule, ma in contemporanea sta portando avanti un altro progetto nell’ambito del Penra (Program for Excellence in Natural Rubber Alternatives), sviluppato nel centro di ricerca e sviluppo per l’agricoltura dell’Università statale dell’Ohio.
Qui, sotto osservazione, è il tarassaco russo (Taraxacum kok-saghyz), parente stretto del nostro dente di leone, quel grazioso fiore spontaneo dai petali gialli che poi si tramuta in soffione al momento dell’inseminazione. Lo stelo di questa pianta spontanea contiene un lattice dalle caratteristiche simili a quelle dell’albero della gomma. Durante la seconda guerra mondiale, anche il tarassaco fu utilizzato in sostituzione dell’Hevea; la Russia, in particolare, lo coltivò a partire dal ’22 e su larga scala tra il 1931 e il 1950, ma fecero ricorso a questa pianta anche Stati Uniti, Spagna, Gran Bretagna, Svezia, Germania, Australia e Nuova Zelanda. I primi test tecnici effettuati nei laboratori Bridgestone fanno ben sperare, ma per una sperimentazione vera e propria bisognerà aspettare il prossimo anno.
Per studiare sviluppo, sfruttamento e uso sostenibile del Guayule e del tarassaco russo come fonti alternative di gomma naturale è attivo in Europa il consorzio Eu-Pearls, che punta a creare sul continente una filiera per la produzione di gomma naturale.
Dai fiori agli alimenti
Sempre in Giappone, è stata messa a punto un’altra “ricetta” innovativa per pneumatici, a base di olio estratto dalla buccia d’arancia: è il BluEarth della Yokohama. Le sue caratteristiche consentono un ridotto consumo di carburante e una lunga durata (abbinati, a quanto pare, ad ottime prestazioni), ma anche per questa mescola l’uso di nanotecnologie rende difficile parlare di svolta ecologica.
Rimanendo in ambito vegetale, non può passare sotto silenzio l’apporto dell’italiana Novamont, ideatrice del Mater-bi. Proprio l’amido di mais è stato usato come additivo in sostituzione di nerofumo e silice nella produzione di un eco-pneumatico che promette non pochi benefici: riduzione del peso, del consumo del battistrada, del rumore, delle emissioni di anidride carbonica (10 g/km) e dell’energia utilizzata per la fabbricazione; il tutto abbinato con maggiori doti di tenuta di strada e un minore consumo di carburante (oltre 150 euro in 15.000 km).
Bmw e Goodyear sono partner del progetto, che ha ricevuto una sovvenzione di tre milioni di euro nell’ambito del programma Life-Ambiente dell’Unione europea. Il nuovo pneumatico dovrebbe entrare in produzione nel 2013, ma la collaborazione tra Goodyear e Novamont risale a diversi anni addietro: già nel 2001 un primo pneumatico al mais (Gt3) era frutto della tecnologia Biotred, nata da cinque anni di ricerca congiunta. Per il futuro, Novamont ha allo studio nuovi processi per ricavare le molecole utili alla produzione di gomma dagli scarti vegetali, per salvaguardare le piante ad uso alimentare.
Sempre la Goodyear ha di recente annunciato il prossimo collaudo di pneumatici con una mescola innovativa in cui l’impiego di olio di semi di soia porterà a ridurre di oltre 26 milioni di litri all’anno l’impiego di derivati dal petrolio; se i test daranno esito positivo entreranno in commercio nel 2015.
Sinteticamente verde
Anche nel campo delle gomme sintetiche la ricerca sta vagliando diverse possibilità per sostituire ai derivati del petrolio materiali ecosostenibili. Ancora Goodyear è impegnata da anni a studiare la tecnologia Biolsoprene, che permetterebbe di utilizzare al posto dell’isoprene una gomma sintetica ricavata da biomasse vegetali (tra cui canna da zucchero, panico verga, granoturco e relativi scarti). Un prototipo, presentato a Ginevra nel 2010, ha vinto il premio “Environmental Achievement of the Year”.
Una strada simile è quella battuta da Michelin in collaborazione con una piccola società californiana specializzata in biotecnologie. Il lancio del nuovo prodotto è previsto per il 2015. Pirelli è dal 1872 il maggior produttore di gomma in Italia ed è da tempo impegnata sul fronte ambientale, cosa di cui da’ conto anche nell’annuale bilancio di sostenibilità. La casa milanese collabora con diverse università per studiare alternative all’albero della gomma, ma la ricerca forse più interessante riguarda la produzione di silice dalla lolla (cioè dal rivestimento) del riso. Tale involucro è composto per un quinto da silice, e il resto della materia organica è utilizzato per ottenere l’energia necessaria al processo, che porta così ad un abbattimento delle emissioni di CO2 rispetto ad una lavorazione tradizionale.
Il nuovo bio-materiale è già in produzione negli stabilimenti brasiliani del gruppo, che dichiara che entro il 2015 il 30% della silice utilizzata da Pirelli in America Latina sarà di derivazione vegetale.
L’idea dimenticata
Cerignola, il Messico pugliese
L’11 ottobre 1935 la Società delle Nazioni approvò delle sanzioni economiche a carico dell’Italia, rea di aver invaso l’Etiopia. La risposta del regime fascista fu l’autarchia, ovvero la produzione sul territorio nazionale delle materie prime indispensabili. Fu in questo ambito che, nel 1938, il ministero dell’Industria spinse Pirelli e Iri a fondare la Saiga (Società agricola italiana gomma autarchica). Furono avviati dei contatti con la società statunitense Intercontinental Rubber Company, che produceva gomma dal Guayule. Dopo un primo tentativo, fallito, di coltivare l’arbusto messicano in Libia, venne individuata come zona compatibile l’area di Cerignola, nel Tavoliere delle Puglie. In seguito all’accordo con il partner americano, nella primavera del ’40 furono messe a dimora 25 milioni di piantine di Guayule ottenute con i semi selezionati fatti venire dalla California, per una produzione attesa di una tonnellata di gomma per ettaro. Il progetto era grandioso: produrre in breve tempo 10.000 tonnellate anno, un terzo circa del fabbisogno interno.
In seguito all’entrata in guerra dell’Italia, il progetto andò a morire e, con l’arrivo degli alleati nel ’44, i terreni del Tavoliere furono reindirizzati alla coltivazione dei cereali. Nel 1947 la Saiga fu messa in liquidazione, ma già nel ’39 era stata incorporata in un’altra società, sempre Pirelli-Iri, questa volta proiettata alla lavorazione della gomma sintetica (la Saigs).
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L'autore
Stefania Marra
Stefania Marra, giornalista professionista dal 1994, è stata per circa dieci anni caporedattrice della rivista Modus vivendi. Dal 2005 gestisce il modulo pratico di giornalismo al Master di comunicazione ambientale (CTS/Facoltà di Scienze delle comunicazioni Università La Sapienza). Scrive soprattutto di storia sociale dell'alimentazione e di ambiente, settore per il quale ha ricevuto diversi premi giornalistici.
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