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La grande corsa del petrolio | Tekneco

Combustibili fossili

La grande corsa del petrolio

Nell’analisi di scenario di Tommaso Limonta la situazione italiana sul fronte del caro greggio e i fattori geopolitici internazionali

Scritto da il 01 marzo 2013 alle 13:14 | 0 commenti

La grande corsa del petrolio

Articolo di Tommaso Limonta
Fondazione ISTUD per la cultura d’impresa e di gestione Area Ricerca

Tommaso Limonta delinea il quadro della situazione italiana sul fronte del caro-greggio, per poi illustrare le misure assunte dal Governo Monti (decreto liberalizzazioni) e l’inedita soluzione scontistica del Gruppo ENI.

Nella seconda parte dell’articolo si evidenzia come l’analisi dei fattori nazionali interni non basti ad esaurire lo spettro delle possibili concause e si introduce una sorta di sintetica overview dei fattori geopolitici internazionali che ne hanno aggravato gli effetti o che potrebbero mitigarne le conseguenze.

Infine, si fa un breve cenno alla variabile finanziaria, chiarendo come la dilatazione esponenziale del mercato virtuale dei futures e la loro movimentazione da parte dei grandi colossi bancari abbia contribuito non poco a far crescere i prezzi della materia prima, senza che questo avesse talora una giustificazione nella movimentazione reale degli scambi.

La grande corsa del petrolio: un’analisi di scenario

Gli aumenti e la volatilità delle quotazioni del petrolio hanno effetti immediati ed estesi sull’economia di un Paese. In termini macroeconomici si stima che un paese come l’Italia lasci sul terreno lo 0,4 per cento del prodotto interno lordo per ogni 10 dollari di aumento del prezzo del petrolio, con conseguenze significative sulle altre fonti energetiche (gas in primis) e sul loro utilizzo. Tuttavia, come è noto, il prezzo del carburante alla pompa è solo in parte una funzione delle fluttuazioni dei mercati internazionali poiché circa il 60% di quanto paghiamo noi Italiani in benzina e gasolio è di fatto riconducibile alla componente fiscale, che quindi altera in maniera significativa la percezione del consumatore finale. Per meglio comprendere le ragioni e il conseguente impatto che il prezzo dei carburanti alla pompa sta determinando sull’economia del nostro Paese, occorre tuttavia cercare di misurarne l’effettiva portata, spesso travisata da valutazioni psicologiche che non necessariamente riflettono il reale andamento del mercato degli idrocarburi.

Sul mercato nazionale, l’incremento del prezzo registrato alla pompa per l’acquisto di 1 litro di benzina senza piombo può essere efficacemente rappresentato mediante il grafico a lato, che non si limita a registrare l’andamento del prezzo al consumo, ma ne evidenzia anche lo scostamento rispetto all’incremento dell’IVA e delle numerose accise che continuano a pesare sul prezzo finale del combustibile.

Nei fatti, a fronte di un prezzo medio al consumo di 1,082 Euro (trasformazione dalla divisa allora circolante, la lira italiana) nel 2000, si è rapidamente passati a 1,125 Euro nel 2004, 1,299 nel 2007, 1,364 nel 2010 e 1,538 nel 2011. Da allora il prezzo ha cominciato ad impennarsi bruciando di mese in mese i record che prima si infrangevano nel corso di anni: 1,700 a gennaio, 1,799 a marzo, 1,805 a maggio, 1,750 a luglio per arrivare ad ottobre con il prezzo che oscilla attorno a 1,840. Possiamo constatare come il livello del prezzo al consumo sia certamente aumentato per effetto di un rapido innalzamento di IVA e accise, ma con un trend che si discosta abbastanza palesemente rispetto a quello con cui è cresciuta l’imposizione fiscale; e questo è un primo dato che fa in parte giustizia della convinzione diffusa che i carburanti aumentino solo perché aumentano le tasse.

In un simile scenario, i provvedimenti assunti dal Governo Monti nel gennaio del 2012 per cercare di arrestare la corsa inesorabile dei carburanti si sono sostanziati in un testo legislativo, discusso e contestatissimo dagli operatori del settore, volto a stimolare iniziative di liberalizzazione nel settore. Nello specifico, il testo finale del provvedimento legislativo (art. 18) ha previsto che i titolari delle autorizzazioni petrolifere possano liberamente rifornirsi presso qualsiasi produttore o rivenditore nel rispetto della vigente normativa nazionale ed europea, anche rinegoziando le condizioni economiche e l’uso del marchio. Ulteriori misure sono state assunte a sostegno di una progressiva “selfizzazione” della rete distributiva nazionale (soprattutto fuori dai centri abitati) con iniziative a sostegno della rete distributiva metaniera e di una sua più capillare diffusione sul territorio nazionale. Come è noto, il trend complessivo dei prezzi non ha fatto registrare scartamenti significativi a seguito di tali provvedimenti che nei fatti non hanno sortito gli effetti auspicati.

Un’eccezione alla regola è rappresentata dalla singolare iniziativa del gruppo ENI che, a partire dal mese di giugno, ha scelto di rispondere alla drammatica impennata dei prezzi con la scelta senza precedenti di scontare di circa venti centesimi il prezzo al litro di benzina e gasolio, limitatamente ai fine settimana. L’iniziativa, che si è protratta fino ad esaurimento delle scorte, ha avuto importanti ripercussioni su tutto il comparto innescando a cascata una serie di sconti analoghi presso i punti vendita Q8, Esso, IP e presso tutti i no-logo. La scelta del gruppo ENI ha suscitato l’immediata reazione delle associazioni di categoria che hanno accusato il colosso degli idrocarburi di ledere la libera concorrenza. Per ENI, la politica degli sconti è stata un vero business che ha fatto quintuplicare le vendite di carburanti, garantendo al contempo un vigoroso ritorno d’immagine per il “cane a sei zampe”.

Non vi è tuttavia alcun dubbio che iniziative di questa natura ben poco possano influire sul quadro complessivo di un mercato fortemente penalizzato dai continui rincari, e questo ripropone la domanda: quali sono le possibili ragioni di un simile scenario? La risposta ci costringe a guardare ben oltre i confini nazionali: in primo luogo alla Libia, storico fornitore di greggio per il mercato italiano. Per quanto la produzione di petrolio libico si sia riattivata abbastanza rapidamente dopo la caduta sanguinosa del regime di Muhammar Gheddafi (ricordiamo che il flusso di greggio si era interrotto quasi completamente nei mesi della guerra civile, almeno fino all’ottobre del 2011), la produzione di petrolio resta decisamente al di sotto dei volumi di alcuni anni or sono, con volumi di export stimati intorno ai 750 mila barili al giorno nel dicembre del 2011 – circa la metà della produzione pre-bellica dell’anno precedente. Il che non è certo poca cosa se consideriamo che la Libia può vantare le maggiori riserve di idrocarburi di tutto il continente africano (44,3 miliardi di barili di greggio – 3,7% delle riserve provate mondiali, ottavo paese al mondo – e 1.540 miliardi di metri cubi di gas naturale – 1% delle riserve mondiali). E non è tutto: il petrolio libico (detto anche light sweet crude per la sua particolare purezza) è uno dei più apprezzati sul mercato internazionale dei combustibili da trazione proprio per la scarsità di scorie e residui che ne fa il carburante d’elezione per l’autotrasporto.

Il greggio libico proviene essenzialmente da tre siti: il bacino della Sirte, il bacino di Marzuk e quello di Pelagian Shelf. Il bacino della Sirte, in particolare, è un’area di antica estrazione e di notevole complessità geologica. Da questa zona provengono circa due terzi della produzione totale del paese e proprio qui – davanti alle coste italiane – si sono registrati per lungo tempo i più accesi combattimenti tra “rivoluzionari” e lealisti pro-Gheddafi. La gran parte dei pozzi più importanti e dei maggiori oleodotti di questa zona non risulta gravemente danneggiata; tuttavia le pipelines sono ancora in gran parte scoperte e, data la vastità della rete che attraversa il paese, mostrano diversi segni di usura e cedimento. Un ulteriore impedimento al pieno ripristino dell’attività estrattiva deriva dalla posa delle mine intrapresa da parte delle forze lealiste a protezione dei terminal e delle infrastrutture all’inizio del conflitto. Secondo fonti delle compagnie nazionali libiche Noc e Agoco, in particolare, risultano danneggiati il terminal di Brega, che riceve il greggio (con una capacità di 25.000 barili al giorno) proveniente principalmente dai giacimenti di Mabrouk, e il terminal di Ras Lanuf (capacità di 22.000 barili al giorno) (fonte: ISPI policy brief. A. Varvelli, Il petrolio libico tra incertezze politiche e nuova concorrenza internazionale).

Insomma: la crisi libica ha certamente pesato sull’andamento dei prezzi al consumo del carburante sul mercato italiano, ma essendosi consumata per gran parte entro il 2011 può tutt’al più essere invocata a giustificazione degli aumenti (pur rilevantissimi) di quell’anno. Per capire meglio cosa stia accadendo al nostro petrolio occorre infatti spingere lo sguardo più a Est, verso la Russia del presidente Putin. Grandissimo produttore di gas e greggio, la Russia è da anni il serbatoio energetico dell’Europa di cui riscalda le case grazie ad un articolato sistema di oleodotti e gasdotti che dal suo territorio transitano fin dentro i confini dell’Unione Europea. Tuttavia, la Russia è anche un Paese in crescita, coinvolto in processi di profonda trasformazione sociale, economica e da ultimo politica, in specie da quando il dispotismo paternalistico del presidente Putin ha cominciato a mostrare le prime crepe. Da qui la necessità sempre crescente di capitali, soprattutto per un regime che sta cercando di fare dell’assistenza e del sussidio pubblico uno strumento di legittimazione e affermazione politica. Nessuno può quindi trarre maggiori vantaggi da un ulteriore incremento del prezzo del greggio della Russia.

D’altro canto, le rotte per cui transitano il petrolio e il gas dell’Asia Centrale sono sempre meno sotto l’esclusivo controllo di Mosca. Il caso più emblematico è quello del celebre progetto Nabucco – sostenuto dalla UE e dagli Stati Uniti – che prevede la costruzione di un gasdotto di 3.300 km dalla Turchia fino all’hub di gas dell’Europa centrale, che si trova a Baumgarten in Austria. Il progetto è stato concepito per ridurre la dipendenza europea dal gas russo e diversificarne le forniture a fronte di una crescente dipendenza dalle importazioni di energia. Il Nabucco è portato avanti da un consorzio di cui fanno parte compagnie dei cinque paesi di transito (Austria, Bulgaria, Romania, Turchia e Ungheria), alle quali si è aggiunta nel 2008 la società tedesca Rheinisch-Westfaelische Elektrizitaetswerk (Rwe).

Il monopolio russo del gas nel Caspio orientale, unito al divieto statunitense di sviluppare le riserve iraniane, ha finora ritardato l’attuazione del progetto; recenti aggiustamenti alla tabella di marcia prevedono il completamento della prima tratta del gasdotto nel 2013, con una capacità di 10 bcm di gas all’anno, e infine il completamento nel 2018 della seconda tratta che dovrebbe aumentarne la capacità annua a 31 bcm. Il 30-40% dei costi di costruzione – che dai 5 miliardi di euro inizialmente previsti sono aumentati, secondo stime recenti, a 7,9 miliardi di euro – dovrebbe essere coperto dagli stakeholder e da investitori privati/istituzionali, come la Banca europea per gli investimenti e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.

Sul fronte petrolifero, un ruolo sempre più rilevante spetta ormai alla Turchia, vero e proprio key-player nell’area dello scacchiere mediorientale, a cavallo tra Europa e Asia. Le componenti principali del corridoio energetico est-ovest che la attraversa sono l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc, lungo 1.780 km, con una capacità di 1 milione b/d), inaugurato nel 2006, e il gasdotto Baku- Tbilisi-Erzurum, che nell’ottica di una politica di diversificazione è diventato insieme al South Caucasus uno dei più importanti progetti di trasporto del gas verso il mercato europeo. Il porto di Ceyhan è anche il terminal dell’oleodotto Kirkuk-Yumurtalik (1,6 milioni b/d proveniente dall’Iraq).

In progetto vi è un terzo oleodotto, il Trans Anatolia (Tapco, 1-1,5 milioni b/d), che dovrebbe collegare Samsun sul Mar Nero a Ceyhan, come via alternativa al Bosforo e ai Dardanelli. Se quest’ultimo sarà realizzato, si stima che circa 180-190 milioni di tonnellate di petrolio l’anno arriveranno nel porto turco e da qui in Europa, senza mai passare per lo snodo cruciale e critico della Federazione Russa che da sempre sfrutta la sua posizione strategica lungo le rotte degli oleodotti per influenzare e condizionare la politica estera dell’Unione Europea.

Se tuttavia consideriamo la parabola marcatamente recessiva dell’economia internazionale, con segni di cedimento anche in quei paesi che, come la Cina, hanno fino ad oggi trascinato la domanda mondiale di petrolio, l’interrogativo circa le ragioni di questi aumenti torna più forte e potente che mai, e non sembra poter trovare una spiegazione razionalmente giustificabile nelle cause geopolitiche fin qui addotte, né tantomeno nell’ormai inveterata leggenda del “petrolio in esaurimento”. La risposta potrebbe dunque legittimamamente collocarsi su un altro piano che non è quello della politica o dell’economia, ma quello della finanza. Come è noto, l’indicizzazione del prezzo del petrolio al barile è oggi fortemente condizionata dal mercato dei cosiddetti futures, titoli speculativi che di fatto le grandi banche d’investimento costruiscono intorno alla scommessa di un aumento dei prezzi in un determinato settore. Orbene, se andiamo a misurare le quotazioni del Brent Crude Oil Futures sulla borsa ICE Futures scopriamo che nel solo periodo compreso tra ottobre 2011 e aprile 2012 il prezzo del greggio al barile è passato da 100 a oltre 126 dollari, per il puro effetto delle speculazioni al rialzo di grandi colossi come Citigroup, JP Morgan Chase e, più in particolare, Goldman Sachs.

Per capire come si possa esser giunti a tanto occorre fare un balzo indietro di una trentina d’anni, al principio degli Anni Ottanta, quando, per effetto dell’apertura verso il mercato dei derivati speculativi da parte del Congresso degli Stati Uniti d’America, il mercato del petrolio greggio cessa di essere basato solo e unicamente sulla compravendita di petrolio fisico per diventare una sorta di grande casinò dove una quota degli scambi viene movimentata non più in greggio, ma in futures, scommesse sul prezzo del greggio in una determinata data futura, di solito a 30, 60 o 90 giorni. Da allora la quota dei futures è salita esponenzialmente, complice il Commodity Futures Modernization Act del 2000, trasformando un mercato reale in un mercato virtuale in cui il prezzo del petrolio non è più determinato dallo scambio di beni, ma dalla movimentazione di titoli cartacei che prescindono spesso completamente da fattori empirici quali guerre, penuria di risorse o quant’altro per diventare la mera funzione di interessi speculativi e variabili psico-finanziarie che effettivamente condizionano poi il prezzo del carburante alla pompa. Come a dire che se tutti scommettono che il prezzo salirà, il prezzo effettivamente comincia a salire e chi ci ha scommesso ci guadagna.

Insomma, dietro l’impennata dei prezzi ci sono anche, se non soprattutto, cause intangibili, ragioni che ancora una volta chiamano in causa quel grande carrozzone della finanza che stravolge gli equilibri del pianeta con un semplice click della tastiera. Regolamentarne gli eccessi significherebbe porre un valido argine a tutte quelle minacce, comunque concrete e verosimili, di cui abbiamo fin qui parlato.

Ulteriori proposte

L’indagine potrebbe essere ulteriormente estesa considerando le minacce che sembrano ancora una volta provenire dalla grande polveriera mediorientale, con particolare riferimento ai venti di guerra che sono tornati a soffiare sull’Iran, grande produttore di greggio. Si potrebbe inoltre cercare di approfondire il ruolo sempre più importante della Cina come grande consumatore di petrolio: fino a qualche decennio fa i Cinesi giravano tutti in bicicletta; oggi sono tutti in auto! Il fabbisogno di petrolio dei Cinesi ha certamente contribuito a far crescere i prezzi sul mercato del greggio, complice la scelta di alcuni grandi produttori come la Russia di non aumentarne l’estrazione per mantenere i prezzi elevati.

Un capitolo a parte potrebbe essere riservato alla questione annosa delle scorte che hanno consentito agli USA di contenere gli aumenti repentini degli ultimi anni. L’Europa non ha grandi scorte di greggio e questo la penalizza maggiormente in periodi di grande volatilità dei prezzi come quello che stiamo attraversando, rendendola più sensibile al gioco sottile del ricatto petrolifero (vd. crisi del 1973).

Fondazione ISTUD per la cultura d’impresa e di gestione – www.istud.it


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