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ricerca e università

Acque contaminate, lo studio dell’Università di Trento

L'intervista ad Alberto Bellin uno degli autori della ricerca scientifica

Scritto da il 30 maggio 2016 alle 11:00 | 0 commenti

Acque contaminate, lo studio dell’Università di Trento

Da uno studio dell’Università di Trento emerge come la vorticità influenzi la possibilità di bonificare gli acquiferi contaminati. Gli autori dello studio sono Mariaines Di Dato e Alberto Bellin dell’Università di Trento, la ricerca internazionale è stata pubblicata sulla rivista scientifica “Proceedings of Royal Society A”. Dallo studio è emerso che la possibilità di mescolare i contaminanti aumenta l’efficacia dei reagenti nel “ripulire” gli acquiferi. Le cause possono essere diverse, ma il problema è sempre lo stesso. Inquinamento dell’acqua: fiumi, torrenti, laghi e acquiferi (falde). E quando l’acqua è inquinata è difficile “ripulirla” perché non dipende soltanto dalla sostanza che la contamina, ma anche da molti altri fattori a cominciare da come l’acqua si muove nel sottosuolo.

Abbiamo intervistato Alberto Bellin dell’Università di Trento (nella foto).

Perché avete ritenuto necessario affrontare questa tematica?

I corpi idrici sotterranei sono una risorsa strategica d’acqua spesso di ottima qualità, ma allo stesso tempo vulnerabile alla contaminazione di agenti esterni, in particolare la molteplicità di prodotti chimici in uso sia oggi, che nel passato. La lunga “memoria” dei sistemi naturali, e degli acquiferi in particolare, fa sì che composti come il tricloroetilene (noto con il nome commerciale di triellina), un tempo molto utilizzati, si trovino in modo massiccio negli acquiferi contaminati. Fortunatamente la contaminazione ha uno sviluppo lento per effetto del parimenti lento fluire delle acque nella matrice porosa costituita dal sottosuolo. Esiste però un altro lato della medaglia: gli stessi processi che rallentano la propagazione della contaminazione riducono, ed in qualche caso annullano, l’efficienza delle tecniche di bonifica attualmente utilizzate. Il recupero di un acquifero contaminato è un’operazione molto difficile, a volte impossibile, e quindi spesso ci si limita a ricondurre il rischio sanitario per la popolazione entro i limiti normativi, con il risultato però che quell’acqua non può più essere utilizzata a scopi potabili, oltre al danno all’ambiente. Questo nonostante in laboratorio su piccoli campioni di suolo ed acqua l’intervento con reagenti chimici abbia spesso successo. Cosa accade nel passaggio dal laboratorio all’acquifero reale? A questa domanda la ricerca ha risposto da tempo: è l’estrema eterogeneità degli acquiferi, assieme alla maggiore dimensione della zona su cui intervenire (tecnicamente si parla di processi dipendenti dalla scala, ossia dalla dimensione dell’oggetto da trattare) a limitare fortemente il mescolamento dei reagenti con i contaminanti presenti nell’acquifero. Le sostanze reagenti, che dovrebbero distruggere i contaminanti, hanno efficacia limitata all’intorno del punto d’immissione perché si “mescolano” con difficoltà con le acque contenute nel sottosuolo. Questa difficoltà è intimamente legata a quella che in gergo si chiama la struttura del campo di moto, ossia la distribuzione spaziale della velocità dell’acqua e soprattutto la sua variazione all’interno del mezzo poroso che costituisce il suolo. Comprendere quindi meglio i meccanismi che controllano la variabilità spaziale della velocità con cui l’acqua si muove nella matrice porosa è la chiave per aumentare l’efficacia degli interventi con reagenti. Ma non solo, un “reagente” naturale importante nel caso delle contaminazioni da composti organici – quelli derivati dal petrolio, ossia il 95% degli agenti contaminanti che troviamo negli acquiferi – sono i batteri, la cui efficacia nel decomporre le molecole organiche è pure influenzata dalla struttura del campo di moto, sia direttamente, che indirettamente perché essa influenza la distribuzione della concentrazione dei contaminanti stessi. I batteri, infatti, sono, molto sensibili al livello di concentrazione del composto che demoliscono per ricavarne il carbonio necessario alla loro sopravvivenza e valori eccessivi di concentrazione risultano per loro tossici.

Cosa è emerso dalla vostra ricerca?

La nostra è una ricerca di base che ha evidenziato il legame esistente fra l’efficienza con cui i reagenti iniettati si mescolano con i contaminanti disciolti nelle acque sotterranee e la struttura di aggregazione dei sedimenti che formano il mezzo poroso, ossia la matrice attraverso la quale l’acqua fluisce. Le varie forme che la natura genera nell’aggregare i sedimenti – il sottosuolo è infatti generato dalla deposizione attraverso le ere geologiche dei sedimenti ad opera delle acque che fluiscono sulla superficie della crosta terrestre – influenzano quindi sulla possibilità di ottenere un buon mescolamento fra reagenti e contaminanti, condizione essenziale per raggiungere efficienze tali da rendere l’intervento economicamente sostenibile.

In che modo oggi si ripuliscono le acque inquinate?

Esistono varie tecniche, ma quella più utilizzata è l’estrazione dell’acqua contaminata attraverso uno o più pozzi posti in pompaggio. Si tratta di una tecnica molto costosa dal punto di vista energetico, e spesso scarsamente efficace, se non nei casi più semplici di contaminazioni “giovani”, perché non consente la rimozione dei contaminanti accumulati nelle zone caratterizzate dall’aggregazione di materiali più fini, come i limi e le argille. Le contaminazioni iniziate negli anni 50-60, con lo sviluppo spesso tumultuoso dell’attività industriale e della chimica, sono caratterizzate da significativi accumuli di contaminanti nei limi e le argille contenute nel sottosuolo che non si riesce ad eliminare mediante la semplice pompaggio da pozzi. Negli acquiferi limi e argille sono spesso presenti in aggregazioni sottili ed allungate, chiamate lenti, diffuse nella matrice di sedimenti più grossolani e che quindi viste globalmente sono in grado di accumulare grandi quantità di contaminante. Ecco quindi come lo studio delle caratteristiche del moto dell’acqua in queste formazioni estremamente eterogenee sia importante per individuare tecniche di rimozione alternative alla semplice estrazione dell’acqua mediante pompaggio

Avete immaginato un preventivo di spesa per questo servizio?

Essendo una ricerca di base non costituisce un prodotto specifico, od un servizio organizzato, ma fornisce le conoscenze di base spero utili per lo sviluppo di tecniche di bonifica più efficienti delle attuali

Quale sarà il prossimo step?

Con lo stesso gruppo di ricerca internazionale stiamo pensando di studiare come sia possibile creare delle condizioni di flusso che agevolino la rimozione dei contaminanti, attraverso le quali aumentare l’efficacia degli interventi di bonifica. Attualmente, infatti, il numero di pozzi dai quali estrarre l’acqua e la portata estratta dagli stessi (la quantità d’acqua che viene estratta in un intervallo fissato di tempo, ad esempio un giorno) viene decisa con l’unico criterio di “intercettare” l’intera zona contaminata. Non esistono ancora indicazioni tali per cui sia possibile individuare con un sufficiente grado di attendibilità le condizioni che minimizzino i tempi necessari alla rimozione stessa, eventualmente utilizzando opportuni reagenti chimici la cui efficienza di rimozione sia appunto aumentata per effetto del regime di flusso indotto dal pompaggio.


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L'autore

Eleonora L. Moscara

Eleonora L. Moscara, freelance leccese. Inizia a lavorare come giornalista nel 2008 nella redazione tg di un'emittente televisiva locale. Fino ad oggi ha collaborato con diverse testate: dalla carta stampata al web e uffici stampa di vario genere. Si occupa prevalentemente di ambiente e cultura. Scrive sul Nuovo Quotidiano di Puglia e sulla rivista Salento Review. Per Tekneco coordina la redazione web e si occupa della gestione del social media management.


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